2.8.08

Lodo Alfano: la monarchia incostituzionale


Dopo la cancellazione dell’art. 11 a favore degli USA, la mortificazione della laicità nazionale alle esigenze della casta papale e la “sovranità del cittadino” ridotta ad una barzelletta, ecco la pedata parlamentare alla pur nominale “uguaglianza dei cittadini davanti alla legge”. E non solo perché, grazie al lodo Alfano, le più alte cariche dello Stato possono governare e legiferare quali che siano gli eventuali crimini di cui siano responsabili e dei quali risponderebbero a fine mandato salvo imboscamento estero prima dello scadere dell’immunità – impunità.


Da sempre penso che nessuno Stato di diritto possa legalizzare ciò che è naturalmente illegittimo: ciò è avvenuto –e non solo con il suddetto “lodo senza lode” a dispetto dell’etimologia – a comprova che lo Stato di diritto non esiste. Ciò avviene in un Paese dove, in nome della legalità, si combatte la criminalità prodotta dal sistema e dove pertanto è difficile distinguere in termini scientifici ciò che è veramente lecito da ciò che non lo è.


L’unica cosa certa è che l’Italia non rinuncia alla nomea di “patria del diritto” e che si dice, nonostante tutto, uno Stato di diritto ovvero che il gioco delle parole rimane l’unica certezza demagogico-liturgica di una caricatura giuridica indefinibile.


Non occorre drammatizzare o soltanto colorire: basta leggere la realtà quale è effettivamente per avere motivi sufficienti di strapparsi i capelli per disperazione politica. Anche se ciò non serve a nulla. Si è sollevato un polverone di scandalo per le parole di Bossi irriverenti per l’inno nazionale e per la bandiera, ma si tratta di quisquilie – per dirla come avrebbe fatto Toto – se ci si inchina davanti al Custode della Costituzione che ne promulga la fine con la disinvoltura di un burocrate che pronuncia la pena di morte di un innocente.


Del resto, niente di meglio ci si poteva aspettare da un uomo che da molto tempo ormai ha tradito sé stesso abbandonandosi alla recita di buone parole alla stregua di un cappellano che benedice le armi o di un papa, che pronuncia un’omelia pasquale o che, salito in “cathedra”, pronuncia la propria infallibilità. Sono le stesse buone parole pronunciate davanti all’Altare della Patria o rivolte alle Forze Armate o dell’Ordine.


Sono le stesse esortazioni di un Napoletano per i buoni rapporti fra Maggioranza ed Opposizione, avendo Costui accettato per naturale tutto il borghesume di sempre, vissuto di parassitismo ma con un pensierino “caritatevole” (leggi: ipocrita) alla povertà e che, a Mosca, ha raccomandato al patriarca ortodosso di stabilire rapporti di fraterna intesa con il papa cattolico! Più efficiente di così! Che cosa ci si poteva aspettare da un Presidente così buono?


Fuori metafora… Stato di diritto non è semplicemente quello basato su leggi scritte, come si è voluto far credere – ai tonti e ai disinformati - subito dopo la cessazione della monarchia assoluta perché, se così fosse, tutte le leggi sarebbero buone e sarebbe valida la ricetta di “legalità uguale a giustizia e a non criminalità”, come ci vogliono far credere i donchisciotti dell’Antimafia. La scienza sociale, così tanto trascurata, non è poi equiparabile alla formula del “due più due fanno quattro”. Lo Stato di diritto vero non è ancora esistito, almeno in Italia, perché esso è solo quello in cui leggi sono le effettive norme di attuazione dei diritti naturali, per esempio del diritto alla vita sin dal momento in cui si nasce. In Italia, infanti e adulti possono morire di fame!


L‘immunità parlamentare è appartenuta ad uno Stato, il cui Parlamento aveva recepito privilegi già appartenuti al monaca assoluto. Si trattava quindi di uno Stato, immediata filiazione dell’autocrazia e base per una democrazia ancora di là da venire. Il lodo Alfano, panegirico medioevale di un vassallo destinato ad un principe, ci riporta indietro di decenni per realizzare una “dittatura democratica” sui generis, in cui, appunto, la prima funzione della legge è quella di tutelare il capo. Il quale, infatti, ha apertamente ringraziato i suoi collaboratori di averlo liberato dalle persecuzioni (sic!) e di fatto un Presidente, che non ha fatto onore alla propria funzione.


Ancora una sola battuta: lo stesso lodo prevede tolleranza zero per chi “guida” un mezzo di locomozione sotto l’ebbrezza dell’alcol o della droga (il che è una cosa buona), mentre prevede tolleranza totale per chi “guida” lo Stato sotto l’ebbrezza dell’impunità e del potere (il che è quanto abbiamo detto)! Se la matematica non è un’opinione!


Il WTO è fallito




La marcia trionfale della globalizzazione si era già fermata. Almeno da due anni, l'idea che l'economia mondiale fosse inevitabilmente destinata ad integrarsi sempre più, con benefici a cascata per tutti, aveva perso vigore e capacità di convinzione. Ma, adesso, lo scenario che rischia di aprirsi è quello della ritirata. Il fallimento, ieri, a Ginevra, del disperato tentativo di rianimare la trattativa commerciale globale, avviata a Doha nel 2001 e rimasta bloccata in sette anni di impasse ha un impatto, prima ancora che economico, psicologico: si esaurisce l'attitudine a vedere, nell'apertura dei mercati, prima i vantaggi che gli svantaggi e la globalizzazione non appare più irreversibile. D'altra parte, è già successo: un secolo fa, quando si spense la prima ondata di mondializzazione dell'economia.

Il punto specifico su cui, dopo 24 ore di negoziato quasi ininterrotto, è naufragato questo ultimo capitolo del Doha Round, è la protezione dei piccoli contadini indiani (e cinesi). Nuova Delhi, con il sostegno di Pechino, reclamava la possibilità di aumentare i propri dazi agricoli, nel caso di un aumento anomalo delle importazioni, che togliesse troppo spazio alle centinaia di milioni (in Cina i piccoli contadini sono 800 milioni) di produttori nazionali. La bozza di accordo stabiliva la soglia di anomalia ad un aumento del 40% delle importazioni. L'India controproponeva il 10%, una soglia troppo bassa, secondo gli americani, in grado di innescare troppo facilmente una chiusura protezionistica. Nessuno pensava che l'ambizioso tentativo di aprire ulteriormente l'intero mercato agricolo e industriale mondiale potesse arenarsi su questo scoglio. La crisi del cibo che ha squassato negli ultimi mesi soprattutto i paesi emergenti ha sicuramente acuito la sensibilità dei governi ai problemi della produzione agricola, ma un compromesso sembrava a portata di mano: nell'ultimo tentativo di accordo non c'era nessuna cifra a segnare il grilletto che poteva far scattare l'aumento dei dazi, lasciato ad una decisione caso per caso.




In realtà, il negoziato è fallito, come era già avvenuto nei tentativi precedenti, per l'accumularsi dei veti incrociati. Cina e India non digerivano che gli Usa, dove oggi i sussidi ai produttori agricoli, soprattutto di cotone e zucchero, valgono 7 miliardi di dollari, si riservassero la possibilità di arrivare fino a raddoppiarli. Gli agricoltori europei reclamavano una protezione più decisa dei propri marchi geografici, per proteggere la propria produzione di qualità dalle incursioni dello champagne americano o del prosciutto di Parma cinese. Soprattutto, in termini generali, non ha funzionato l'abituale scambio agricoltura-industria.

Quando il Doha Round è partito, sette anni fa, l'idea generale era di concedere l'apertura dei mercati occidentali alle importazioni agricole dei paesi emergenti, in cambio dell'apertura dei loro mercati ai prodotti industriali (e, in prospettiva, a banche e assicurazioni) dell'Occidente. Ma, in sette anni, il panorama mondiale è stato rivoluzionato. La Cina è diventata il maggior esportatore mondiale e il cuore dell'industria manifatturiera globale si è spostato nei paesi emergenti: in Cina, in India, in Brasile.

Nell'ottica del Doha Round, tuttavia, questi paesi mantenevano le protezioni da paese in via di sviluppo. Nel caso dell'auto, per esempio, l'Europa avrebbe dimezzato dal 10 al 4,5% il proprio dazio sull'import di auto da paesi, come Cina e India, che, in questi mesi stanno conducendo una politica commerciale assai aggressiva sui mercati occidentali.

Contemporaneamente, la Cina avrebbe abbassato i suoi dazi solo dal 25 al 18% e il Brasile dal 35 al 22%. Mantenendo la possibilità di esentare interi settori industriali dal taglio delle tariffe. Troppo poco, perché, come era avvenuto nei precedenti round commerciali, le lobby industriali occidentali premessero sui governi perché accettassero concessioni in materia di agricoltura.

In termini puramente economici, in realtà, il fallimento di Ginevra ha un impatto relativamente modesto. Anche se alcuni paesi potevano ricavarne benefici sostanziali (l'Italia aveva calcolato un aumento delle proprie esportazioni per 500 milioni di euro l'anno), a livello generale il Doha Round spostava poco. Lo stesso Wto, l'Organizzazione mondiale del commercio, aveva calcolato che un accordo avrebbe comportato un risparmio di 125 miliardi di dollari l'anno in dazi non pagati. L'effetto avrebbe fatto aumentare il prodotto mondiale di 50-70 miliardi di dollari, non più dello 0,1% del Pil globale. Come mai così poco? Perché, in realtà, negli anni scorsi paesi ricchi e paesi emergenti hanno già drasticamente tagliato i propri dazi: oggi alla dogana si paga, in media, nel mondo, il 7%. Cioè, già meno di quanto si doveva concordare a Ginevra.

Per questo, il fallimento del negoziato ha un valore più psicologico che economico. La trattativa del Doha Round riguardava, infatti, nella maggior parte dei casi, la tariffa massima applicabile, non sempre (vedi l'auto), ma spesso superiore a quella oggi applicata. Un accordo, dunque, serviva ad impedire che, in futuro, questi dazi venissero di colpo moltiplicati, rispetto ai livelli attuali.

Il collasso di questo tentativo è un segno dei tempi. La globalizzazione ha già subito, in questi mesi, una serie di duri colpi. La crisi dei subprime ha rivelato la fragilità di mercati, in mano ad una finanza internazionale senza regole. La crisi del cibo ha mostrato quanto, a livello nazionale, possa essere pericoloso affidarsi alle forniture dall'estero per il proprio fabbisogno alimentare. L'impatto della corsa del petrolio sul prezzo dei trasporti sta mettendo in dubbio la razionalità delle scelte di delocalizzazione industriale. Ora, la battuta d'arresto riguarda la liberalizzazione del commercio che, della globalizzazione, è stata in questi anni la struttura portante e il maggior successo. Almeno in teoria, il fallimento di Ginevra non esclude, in realtà, che le trattative possano riprendere, anche nei prossimi mesi. Tuttavia, diplomatici e osservatori - con l'occhio soprattutto al prossimo cambio della guardia a Washington - sono per lo più convinti che la pausa sarà lunga e che il negoziato dovrà, forse, ripartire da zero. Gli economisti, comunque, non ritengono che questo stop possa colpire il livello del commercio mondiale. Troppo radicato, ormai, il decentramento globale delle catene di fornitori (la cosiddetta "fabbrica mondiale") e troppo radicate, anche, le abitudini e le attese di produttori e consumatori per pensare ad una svolta. Senza l'ombrello del Doha Round, tuttavia, il commercio mondiale punterebbe più sulla creazione di blocchi regionali, come la Unione europea, il Nafta americano e un eventuale aggregazione asiatica, frammentando il processo di globalizzazione: questo non garantirebbe regole uguali per tutti e, alla lunga, potrebbe pesare sullo sviluppo mondiale.

Nell'immediato, il fallimento di Ginevra ha, piuttosto, conseguenze anche politiche. Intacca la credibilità di una organizzazione internazionale. Ridimensiona l'entrata in scena di una grande potenza. Colpisce il tentativo ambizioso di dare una voce unica ad un gruppo di paesi, divisi da interessi contrastanti. L'organizzazione è il Wto, sempre meno in grado di presentarsi come una trasparente stanza di compensazione delle strategie economiche mondiali.

La grande potenza è la Cina, che partecipava, per la prima volta direttamente, al negoziato commerciale globale e che ne esce con un nulla di fatto. Il gruppo di paesi è l'Unione europea: il Wto è l'unica sede in cui il rappresentante della Commissione di Bruxelles parla e tratta a nome di tutti i paesi membri. Un successo avrebbe rafforzato la spinta ad una gestione sovranazionale della politica europea.

di Maurizio Ricci



Come gli Stati Uniti finanziano organi di stampa in tutto il mondo



Le campagne interne di propaganda, come "il fiasco dei guru del Pentagono", risultano esposte al pubblico scherno. I grandi mezzi di comunicazione hanno fatto largo uso di alti ufficiali per scrivere "analisi" sul conflitto in Iraq. Poi però si è scoperto che avevano legami con i "contrattisti" del Pentagono medesimo con l'interesse nella prosecuzione della guerra.

Sotto il radar fermenta anche un altro scandalo giornalistico: il governo USA finanzia i mezzi di comunicazione e i giornalisti stranieri. Settori governativi come il dipartimento di stato, quello della difesa, l'Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo Internazionale (US Agency for International Development, USAID), il Fondo Nazionale per la Democrazia (National Endowment for Democracy, NED), il Consiglio Superiore di radiodiffusione (Broadcasting Board of Governors, BBG) e l'Istituto per la Pace degli Stati Uniti (US Institute for Peace, USIP) finanziano lo "sviluppo del giornalismo" in almeno 70 paesi.

La rivista In These Times ha scoperto che questi programmi mantengono sotto di loro centinaia di organizzazioni non governative straniere (ONG), giornalisti, politici, associazioni giornalistiche e facoltà accademiche di giornalismo. La dimensione dei finanziamenti può estendersi da alcune migliaia a milioni di dollari.

"Il tema che stiamo insegnando è la meccanica del giornalismo, scritto, televisivo o radiofonico", spiega Paul Koscak, portavoce dell'USAID. "Come creare una storia, come scrivere in modo bilanciato. . . , tutto quel genere di cose che ci si aspetterebbe da un vero professionista della stampa".

Alcune persone, specialmente fuori dagli USA, hanno un punto di vista differente.

"Pensiamo che la vera intenzione occulta di questi programmi di sviluppo dei mezzi di comunicazione siano gli obiettivi della politica estera (Statunitense)", argomenta un alto funzionario venezuelano che preferisce rimanere anonimo. "Quando l'obiettivo è cambiare un regime, questi programmi si sono rivelati strumenti per destabilizzare i Governi che gli Stati Uniti non appoggiano".

Isabel McDonald, direttrice delle comunicazioni della Fairness and Accuracy in Reporting (FAIR) (Imparzialità e Trasparenza nell'Informazione), un osservatorio senza fini di lucro dei mezzi stampa con sede a New York, alza anche lei critiche. "Questo è un sistema, che a dispetto della sua facciata di adesione alle norme di obiettività, spesso attenta contro la vera democrazia" -dice- "appoggiando il dissenso soffocante e senza discriminare sulle informazioni false che risultano utili alle strategie di politica estera degli Stati Uniti".

Mostrami il bollettino. . .

Risulta difficile misurare le dimensioni e l'estensione dei risultati dello sviluppo di questi "mezzi indipendenti" perchè esistono programmi simili mascherati dietro vari obiettivi. Alcune agenzie considerano che lo "sviluppo dei mezzi di informazione" appartiene al proprio campo d'azione, mentre altri li classificano come "diplomazia pubblica" oppure "operazioni psicologiche". Di modo che risulta difficile stimare la quantità di denaro destinata a tali programmi.

Nel dicembre 2007, il Centro internazionale per l'aiuto ai mezzi di comunicazione (Center for International Media Assistance , CIMA), una divisione del Dipartimento di Stato finanziata dal NED, riporta che l'USAID ha distribuito quasi 53 milioni di dollari in attività di sviluppo dei media stranieri. Secondo lo studio del CIMA, il Dipartimento di Stato ha speso una stima di 15 milioni per questi programmi, il budget del NED per tali programmi è di ulteriori 11 milioni di dollari e il piccolo Istituto per la Pace degli USA (USIP), con sede a Washington, può aver contribuito con ulteriori 1. 4 milioni, secondo l'inchiesta, che non prende in considerazione anche i finanziamenti del Dipartimento della Difesa né quelli della CIA.

Il governo degli Stati Uniti è il maggiore "azionista" dei fondi per lo sviluppo dei mezzi informativi in tutto il mondo, avendo destinato almeno 82 milioni di dollari nel 2006, senza includere il denaro del Pentagono e della CIA o delle ambasciate nei paesi recettori. Per complicare il quadro, molte ONG straniere e giornalisti ricevono ulteriori fondi da altre fonti governative statunitensi. Alcuni ricevono soldi da vari subcontrattisti USA e "organizzazioni internazionali indipendenti senza fini di lucro", mentre altri direttamente dall'ambasciata nordamericana del proprio paese.

Tre giornalisti stranieri che hanno ricevuto tali fondi per lo sviluppo dei media da parte degli Stati Uniti rivelano a In These Times che questi "regali" non influiscono sul loro comportamento né alterano la loro linea editoriale e negano di praticare l'auto-censura. Nessuno però ammetterebbe ciò in tale inchiesta.

Gustavo Guzman, ex giornalista e ora ambasciatore per la Bolivia negli USA, ha detto: "Un giornalista che si rispetti non accetterebbe mai codesti ossequi, senza essere considerato poco meno di un mercenario".

Una storia contorta

Il finanziamento del governo statunitense ai mezzi di comunicazione ha una lunga storia. Alla metà degli anni 70, due inchieste del Congresso poi sfociate nel Watergate, la commissione Church e Pike, del senatore George Church (D-Idaho) e del rappresentante Otis Pike (D-NY), svelarono le attività segrete degli USA in altri paesi. I due comitati confermarono che, oltre ai giornalisti sovvenzionati dalla CIA, stranieri e statunitensi, il governo di Washington finanziava anche la stampa, radio e televisione dei paesi stranieri, attitudine alla quale partecipavano anche i sovietici.

Ad esempio, Encounter, una rivista letteraria anti-comunista dell'epoca tra il 1953 e il 1990, e' stata smascherata come chiara operazione "covert" [sotto copertura, ndt] della CIA. Egualmente ai giorni nostri, organizzazioni dal nome benevolo, tipo il Congresso per la Libertà di Cultura, sono in realtà altre facciate della CIA.

Le investigazioni del Congresso hanno stabilito che i finanzamenti clandestini del governo USA ai mezzi di comunicazione stranieri svolgono sovente un ruolo rilevante nella politica estera, ma in nessun luogo come nel Cile al principio degli anni 70.

"Le principali operazioni di propaganda della CIA, nel giornale di opposizione El Mercurio, probabilmente contribuirono il piu' direttamente possibile al golpe sanguinoso contro il governo di Salvador Allende e alla democrazia in Cile", secondo quanto riferisce Peter Kornbluh, analista del National Security Archive, istituto di investigazione non governativo indipendente.

In These Times ha chiesto alla "Agenzia" se finanzia ancora i giornalisti stranieri. Il portavoce della CIA Paul Gimigliano risponde: "La CIA, normalmente, non nega né conferma questa classe di affermazioni".

Nemici del Dipartimento di Stato?

Il 19 Agosto del 2002, l'ambasciata americana a Caracas, Venezuela, inviò il seguente messaggio a Washington:

"Speriamo che la partecipazione del Sr. Lacayo come Grant IV sia riflessa direttamente nel suo rapporto con gli affari politici e internazionali, poichè così facendo migliora la sua carriera, migliorare i nostri legami con lui significherebbe guadagnare un amico potenzialmente importante per quanto riguarda la situazione editoriale". [nde: Il nome del Sr. Lacayo è fittizio per proteggere la vera identità].

Il Dipartimento di Stato ha scelto un giornalista venezuelano per visitare gli USA sotto un progetto conosciuto come Grant IV, un programma culturale di scambio iniziato nel 1961. L'anno scorso, il medesimo dipartimento ha invitato (e fatto arrivare) 467 giornalisti negli Stati Uniti, con un costo approssimativo vicino ai 10 milioni di dollari, secondo un funzionario dello Stato che preferisce rimanere nell'anonimato.

MacDonald, di FAIR, ha detto che "le visite servono per costruire lacci fra i giornalisti stranieri in visita e le istituzioni a condizione che. . . . siano estremamente acritici con la politica estera statunitense e degli interessi 'corporativi' che serve".

Il Dipartimento di Stato finanzia lo sviluppo dei media tramite i suoi vari uffici, incluso il Bureau of Educational and Cultural Affairs (BECA), il Bureau of Intelligence and Research (INR) e il Bureau of Democracy, Human Rights and Labor (DRL), così come direttamente dalle sue succursali e ambasciate in tutto il mondo. Sovvenziona anche giornalisti stranieri mediante un'altra sezione chiamata Office of Public Diplomacy and Public Affaire (OPDPA). La cosa più importante è che generalmente il dipartimento di stato decide che altre agenzie, tipo la USAID e la NED, devono investire fondi nello sviluppo dei media.

(Il Dipartimento di Stato non risponde alle richieste di informazione da parte di In These Times su questo tipo di fondi, però lo studio del CIMA 2007 dimostra, per esempio, che solamente DRL ha ricevuto nel 2006 quasi 12 milioni di dollari per lo sviluppo del giornalismo).

Il caso della Bolivia rivela come gli Stati Uniti hanno finanziato, e finanziano tuttora, lo sviluppo dei mezzi informativi di un paese. Secondo il sito web del DRL (Bureau of Democracy, Human Rigths and Labor), il suddetto ufficio ha patrocinato nel 2006 in Bolivia 15 stage sulla libertà di stampa ed espressione. "I giornalisti del paese e gli studenti di giornalismo hanno discusso di etica professionale, le buone pratiche di diffusione delle notizie e il ruolo dei media in una democrazia", afferma tale sito. "La diffusione di questi programmi ha coperto aree remote in tutto il paese, tramite 200 stazioni radio".

Sempre nel 2006, la Bolivia ha eletto Evo Morales, primo presidente indigeno del paese, il quale già si era confrontato all'opposizione degli USA e dei mezzi di comunicazione alla sua presa di potere. Inoltre, insieme ai membri del suo partito, afferma che il governo statunitense è coinvolto direttamente con il movimento secessionista delle provincie dell'est boliviano, ricche di gas, e denunciano che questo appoggio ha implicato riunioni per l'arruolamento dei mass-media. Tale dichiarazione proviene da Alex Contreras, portavoce presidenziale. Koscak, di USAID, ha ovviamente negato tutto.

Questo e' il BBG

Nel 1999 il "Broadcasting Board of Governors (BBG)" si converte in un'agenzia federale indipendente. Fino al 2006 riceveva finanziamenti per 650 milioni di dollari, stime CIMA, con approssimativamente 1.5 milioni destinati allo sviluppo dei media e addestramento di giornalisti in Argentina, Bolivia, Kenia, Mozambico, Nigeria e Pakistan.

Oltre a "Voice of America", il BBG operava anche in altre stazioni radio e tv. La stazione "Alhurra" (con sede a Springfield, in Virginia), è "una rete commerciale televisiva satellitare in arabo per il Vicino Oriente, dedicata sopratutto a notiziari". Secondo il sito web di Alhurra, "il libero" in arabo, è descritta dal Washingtin Post come il più grande sforzo economico degli Stati Uniti per smuovere l'opinione pubblica tramite l'etere, dalla creazione della "Voz de America" nel 1942.

BBG finanzia anche: Radio Sawa (per la gioventù araba, con presenza in Egitto, Golfo Persico, Iraq, Libano, Levante, Marocco e Sudan), Radio Farda (per l'Iran) e Radio Asia Libera (con programmazione regionale per l'Asia). Il BBG sovvenziona così anche Radio e Tv Martí, con una media di 39 milioni di dollari nell'anno fiscale 2008, secondo la "Foreign Operations Congressional Budget Justification".

La Banda del Pentagono

Il Dipartimento della Difesa (DoD) si è rifiutato di parlare con In These Times a proposito dei programmi di svilluppo dei media. Secondo un articolo di Jeff Perth, pubblicato dal The New York Times l'11 dicembre del 2005, "i militari fanno largo uso di radio e giornali (in Iraq e Afganistan) però non rivelano le loro radici statunitensi".

Il compito di sviluppare i media in Iraq "e' stato affidato al DoD, i cui contrattisti importanti avevano scarsa o nessuna esperienza rilevante", stando a un resoconto dell'USIP del ottobre 2007.

Uno studio 2007 del Centro di studi Globali in Comunicazione della Scuola Annenberg per le Comunicazioni, Università della Pennsylvania, rivela che Science Applications International Corp. (SAIC), contrattista di lunga data del DoD, ricevette un contratto iniziale di 80 milioni per un anno con lo scopo di rendere "indipendente" il sistema di radiodiffusione governativo, con uno stile simile alla BBC, con l'ovvio scopo di contrastare l'influenza di Al Jazeera nella regione.

Le supervisioni SAIC sono un ufficio del DoD specializzato in operazioni di guerra psicologica, che molti credono abbia contribuito a far ritenere agli iracheni che la "Iraq Media Network (IMN)" era semplicemente un'appendice della "Coalition Provisional Authority", dice il rapporto dell'USIP. Il funzionamento del SAIC in Iraq e' stato considerato costoso, non professionale e fallito in quanto incapace di dotare di obbiettività e indipendenza l'IMN. Infatti alla fine SAIC ha perso il contratto a favore di un'altra compagnia, la Harris Corp. .

SAIC non e' l'unico fornitore di media del Pentagono che ha fallito miseramente. Peter Eisler, in un articolo del 30 aprile in USA Today, assicura che il sito web iracheno di notizie Mawtani.com è un altro mezzo informativo finanziato da parte del Pentagono.

USAID: "Gente all'Americana"

Il presidente J. F. Kennedy creò l'Agenzia USA per lo Sviluppo Internazionale (USAID) nel novembre 1961 con lo scopo di gestire aiuti umanitari e la crescita economica in tutto il mondo. Ma, mentre l'USAID si affanna a promuovere la trasparenza nelle relazioni con gli altri paesi, è molto poco trasparente con se stessa. Questo è particolarmente vero per quello che riguarda i programmi per lo sviluppo dei mezzi informativi.

"In un dato numero di paesi, includendo Venezuela e Bolivia, l'USAID agisce più come un'agenzia implicata in azioni sotto copertura, come la CIA, che come un'agenzia di aiuto e sviluppo", dice Mark Weisbrot, economista del "Center for Economic and Policy research" (CEPR), un "think Tank" di Washington.

Di fatto, mentre gli investigatori hanno potuto ottenere i bilanci generali dei programmi globali di USAID tramite il "Freedom of Information Act" (FIA), così come quei paesi o regioni dove scorre questo fiume di denaro, i nomi delle organizzazioni straniere che ricevono questi fondi rimangono un segreto di stato, come nel caso della CIA.

Nei rari casi dove si conosce il nome delle organizzazioni riceventi e si richiede informazioni al riguardo, la USAID risponde che non può "negare o confermare l'esistenza di precedenti", usando lo stesso linguaggio della CIA. (Nota dell'Autore: nel 2006 ho perso un processo giudiziario contro USAID, nel tentativo di identificare le organizzazioni che finanzia all'estero).

USAID finanza tre importanti operazioni di sviluppo: la "International Research & Exchange Board (IREX), la rete "Internews Network" e la "Search for Common Ground", che e' finanziata principalmente da privati. Per complicare ancor di piu' la situazione, queste tre operazioni hanno anche ricevuto finanziamenti statali come la "Middle East Partneship Initiative (MEPI) del "Bureau of Intelligence and Research" e dal "Bureau of Democracy, Human Rights and Labor".

Stando ai suoi bollettini, IREX e' un'organizzazione internazionale senza fini di lucro che "lavora con soci locali per migliorare la professionalità e la sostenibilita' economica a lungo termine di radio, televisioni e media in internet". La dichiarazione impositiva "990" dell'IREX indica nel 2006 che le sue attivita' con i media includono "piccole borse di studio concesse oltre 100 giornalisti e organizzazioni, addestramento per centinaia di giornalisti e imprese di telecomunicazioni e stampa", con una capacita' operativa che include almeno 400 impiegati che smistano consulenze e spediscono programmi in almeno 50 paesi.

La rete Internews Network, comunemente nota come "Internews", riceve solo metà dei fondi della IREX, ma e' piu' conosciuta. Fondata nel 1982, gran parte dei suoi fondi provengono da USAID, anche se riceve contemporaneamente fondi dal NED e dal Dipartimento di Stato. Internews e' una delle maggiori operazioni nello sviluppo dei media indipendenti, finanziando decine di ONG, giornalisti, associazioni di giornalisti, istituti e facolta' accademiche di giornalismo in dozzine di paesi nel mondo.

Le operazioni di Internews sono state cancellate in paesi come la Bielorussia, Russia e Uzbekistan, dove e' stata accusata di minare i governi locali e promuovere l'agenda degli Stati Uniti. In un discorso a Washington nel maggio 2003, Andrew Natsios, ex amministratore delegato di USAID, ha descritto i contrattisti privati finanziati dalla Agenzia come "un braccio del governo USA".

L'altro maggior ricettore di fondi USAID per lo sviluppo, Search for Common Ground, riceve più denaro dal settore privato che da parte del governo USA, in maggioranza per casi di "soluzione di conflitti", secondo lo studio del CIMA.

Cuba e Iran sono due obiettivi importanti della USAID, per lo sviluppo e assistenza dei mezzi d'informazione. Il budget USAID per la "liberta' dei media e la liberta' di informazione", durante la "transizione" di Cuba sotto la "commission for Assistance to a Free Cuba II (CAFC II), totalizza ben 14 milioni di dollari. Questo rappresenta un incremento di 10.5 milioni rispetto alla quantita' assegnata nel 2006. In Iran la USAID ha stanziato almeno 25 milioni nell'anno fiscale 2008. Forma parte di un pacchetto di 75 milioni di dollari destinato a quella che la USAID chiama "diplomazia trasformativa" in quel paese.

Finanziando "democrazia" stile USA

"Molto di quello che facciamo oggi segretamente la CIA lo ha fatto per 25 anni", dice Allen Weinstein, uno dei fondatori del "National Endowment for Democracy", in un articolo pubblicato nel 1991 dal The washington Post.

Fondato nei primi anni ottanta, il NED, "e' governato da una giunta direttiva indipendente e non di partito". Il proposito è appoggiare organizzazioni favorevoli alla democrazia nel mondo. Nonostante, storicamente, la propria agenda sia impostata sulla politica estera degli Sati Uniti.

"Quando si accantona la retorica sulla democrazia, il NED e' uno strumento specializzato per penetrare sotto il livello di origine popolare della societa' civile di altri paesi", per arrivare agli obiettivi della politica estera statunitense, scrive il giornalista dell'Università di Santa Barbara in California, William Robinson nel suo libro A Faustian Bargain. Robinson viaggio' a Nicaragua alla fine degli anni 80 e osservo' come il lavoro del NED con l'opposizione nicaraguense appoggiata dagli USA, debilitava l'influenza sandinista durante le elezioni del 1990.

Il NED si e' attirato l'attenzione pubblica anche in Venezuela, quando si scoprì che finanziava il movimento Anti-Chavez. Nel suo libro, Il codice Chavez, l'avvocato venezuelo-statunitense Eva Golinger segnala che i beneficiari del NED (e dell'USAID) furono implicati nel tentativo di golpe conto il presidente venezuelano Hugo Chavez del 2002, e nello stesso modo con la conduzione generale dello "sciopero dei lavoratori" contro la nazionalizzazione dell'industria petrolifera. La Golinger osserva che il NED finanziava la "Sumate", una ONG venezuelana presumibilmente destinata a promuovere l'esercizio del libero diritto politico dei cittadini, che orchestrò il fallito referendum revocatorio del mandato contro Chavez nel 2004.

Dipendenza e obbligazione

Il concetto di separazione dei poteri tra la stampa e il governo e' un principio basilare non solo negli Stati Uniti ma anche nell'articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo. Il finanziamento del governo nordamericano a qualsiasi organismo di stampa altera le relazioni cliente-donante al punto di impedirne la sua classificazione come mezzo indipendente di informazione.

"Tutte le donazioni USA di materiale, siano computers o registratori, influenzano il lavoro dei giornalisti", afferma Contreras, giornalista boliviano, perchè "creano dipendenza e un obbligo verso l'agenda occulta degli Stati Uniti".

Foto accanto al titolo: Libanesi di Beirut guardano Alhurra, una rete televisiva in lingua araba finanziata dagli Stati Uniti. In arabo Alhurra signifca "il libero".

Titolo originale: "Cómo EEUU financia órganos de prensa de todo mundo para comprar influencia mediática "

Fonte: http: //www.voltairenet.org/

Risparmiare energia, unico rimedio all’inflazione




«Tutti parlano del tempo, ma nessuno fa qualcosa». La battuta anglosassone, sorta nella piovosa Inghilterra, potrebbe prestarsi a simili lamentazioni sui prezzi del 2008: «Tutti parlano di inflazione, ma nessuno fa qualcosa». Per la verità, qualcuno ha fatto qualcosa: per esempio, la Bce ha innalzato i tassi, per scongiurare gli aumenti dei prezzi di seconda battuta (di cui non vi è traccia, ma i banchieri centrali non sono pagati per non far niente); altri hanno investito del problema Mister Prezzi (che, se serve a qualcosa, serve a duplicare il lavoro che dovrebbe fare l’Autorità garante delle concorrenza); altri ancora lanciano invettive contro la speculazione (dimenticando che, se l’inflazione è l’onda, la speculazione è solo la spuma sulla cresta dell’onda).



L’inflazione da costi, in special modo quando i costi riguardano beni importati, è una camicia di forza per chi ne soffre. Non c’è molto che si possa fare per scrollarsi di dosso questo fardello. Ma non è detto che questa condanna all’impotenza sia totale. E’ possibile ragionare su quel molto che non si deve fare e su quel poco che si può fare. E tenendo presente che l’emergenza prezzi è uno degli aspetti di una crisi globale di cui ancora «non si vede la fine», come ha avvertito ieri il Fondo monetario.



Fra le cose da non fare, due sono le più importanti. Cerchiamo allora di capire le ragioni di fondo di questi aumenti delle materie prime energetiche e alimentari. Queste ragioni stanno in un accadimento epocale: molti Paesi emergenti avanzano a lunghi passi sulla via dello sviluppo e ripercorrono le strade che già i Paesi ricchi calcarono quando iniziò la loro lunga e industriosa avventura: industrie pesanti, infrastrutture, produzioni energivore. Miliardi e miliardi di esseri umani sono in corsa per migliorare il loro tenore di vita: cambiano i modelli nutrizionali, vogliono cemento ed elettricità, e premono sulla domanda di materie prime. Un assetto produttivo, quello delle materie prime, da sempre dominato dal cosiddetto "hog cycle", da investimenti che richiedono tempi lunghi e condannano a periodiche crisi di sovraproduzione e sottoproduzione. Si, l’Opec è un oligopolio, ma un oligopolio singolarmente inefficiente, che non ha saputo impedire, a metà degli anni 8o, un crollo del prezzo del greggio sotto i io dollari al barile. Ma su questo "hog cycle" si innesta oggi il fattore strutturale di una domanda di petrolio che ha salito un gradino, con l’impetuoso sviluppo di "Cindia" e non solo. La speculazione non fa altro che riconoscere una verità di fondo: con un’offerta fisiologicamente lenta a rispondere a una domanda crescente, il prezzo dell’oro nero salirà. È probabile che la speculazione abbia anticipato questi rincari, e questi anticipi siano stati precipitosi. Ma non vi è dubbio che il prezzo del petrolio rimarrà relativamente elevato. «Tagliare le ali alla speculazione» è dunque un’espressione vuota, sia che risuoni nelle stanze dei bottoni italiane che nei corridoi degli Ecofm che nelle aule del Congresso americano. La prima conclusione è allora questa: abbandonare la ricerca di capri espiatori, accettare che l’equilibrio di fondo fra domanda e offerta di materie prime è cambiato, e attendere un riequilibrio che certamente verrà ma che ha bisogno di tempo per manifestarsi.



E durante questo tempo cosa si fa? Ecco la seconda cosa da non fare: tornare alle indicizzazioni. Il rifiuto di meccanismi di scala mobile non è un bieco tentativo di "far pagare ai lavoratori" il prezzo della crisi, ma è la semplice constatazione di una verità di base: quando aumenta il prezzo di un bene importato, e quando questo aumento non è compensato da un aumento del prezzo dei beni che esportiamo (in termini tecnici, peggiorano le ragioni di scambio), non c’è niente da fare, bisogna stringere la cinghia. Cercare di sottrarsi a questo oggettivo impoverimento del Paese con la deriva salariale è impossibile: l’illusione monetaria di un salario più alto sarà vanificata da maggiore inflazione, e l’inevitabile impoverimento sarà realizzato in un altro modo, con l’aggravante di una perdita di competitività-prezzo rispetto a quei Paesi che hanno risposto alla perdita di ragioni di scambio in modo meno scomposto.



Ma c’è qualcosa di positivo che si può fare per rispondere alla perdita di potere d’acquisto, ed è qualcosa per la quale esistono, a livello individuale, gli stimoli e la capacità. Si tratta di risparmiare nell’uso dell’energia. Il prezzo elevato è l’arma più efficace per generare i risparmi, e le "best practices" esistono per portare a significative riduzioni. Riduzioni che generano un circolo virtuoso, perché, oltre a far risparmiare nell’immediato a livello micro, portano a livello macro a cali della domanda che smussano i prezzi. Perché la virtù dei singoli diventi beneficio collettivo c’è però bisogno che il risparmio di energia diventi un manifesto nazionale, promosso e pungolato dall’azione pubblica. Da questo punto di vista le riduzioni dell’imposta sui prodotti energetici non sono la via migliore; la soluzione preferibile è destinare il gettito extra da caro-energia a interventi mirati di sollievo alle categorie disagiate e a programmi che incentivino il risparmio energetico.


di Fabrizio Galimberti



LE METAMORFOSI DEL TEMPO

Con questo articolo viene superato il muro dei 500 articoli raccolti nel blog.


Una buona lettura a chi avrà tempo e voglia di leggere fra le righe.







Il primo tempo che l'uomo percepisce è quello scandito dal giorno e dalla notte e poi dalle stagioni, il tempo circolare del contadino che si ripete sempre uguale. Sul tempo circolare del contadino si innesta il tempo liturgico, quello dei riti religiosi, anch'esso ripetitivo.

Gli inizi

I primi riferimenti temporali vengono dal ciclo giorno/notte e subito dopo dalle fasi lunari e dal ciclo delle stagioni. Dall'osservazione dei corpi celesti si costruiscono poi i primi calendari.

Cerimonie e rituali rendono ripetibile l'esperienza del mondo, soddisfacendo così una delle esigenze primarie dell'individuo, quella di controllare la propria esperienza, di rendere la propria vita prevedibile senza il bisogno di interrogarsi in continuazione.

I colori liturgici fanno parte del rito e scandiscono un tempo che si ripete in modo circolare. In questo modo l'esperienza non solo è ripetibile, ma lo è anche in modo regolare.

Il tempo del contadino

E’ un tempo che si articola in stagioni e generazioni, scandito da nascite, matrimoni, funerali. Il contadino misura il suo tempo ciclico con le stagioni. Gli anni vengono ricordati con eventi: l'anno della grande nevicata, l'anno in cui morì una persona cara.
Il tempo del contadino è normalmente basato sul ritmo delle stagioni, ma si stende su un periodo ben più lungo quando pianifica acquisti e nuove attività. Se il contadino mette qualcosa da parte e decide di acquistare una vigna deve prevedere un notevole impegno di lavoro, ma anche una probabile rendita abbastanza regolare.
Gli investimenti vengono pianificati anche in base alla famiglia che cresce ed alle braccia disponibili, sono spesso legati alla costruzione di nuove abitazioni.
Il contadino tende a pianificare la sua vita e quella delle generazioni successive. Per esempio nell'acquisto di terre vengono privilegiate le terre confinanti.
Nel mondo del contadino lo sviluppo del singolo è dato dall'accumulo di proprietà (come evidenziato nella "roba" di Verga). In questo caso esso segue logiche lineari.
Egli controlla il suo mondo molto meglio di ciò che può fare oggi un lavoratore medio, che dipende da moltissime altre persone e conosce il mondo attraverso la TV, con poca esperienza diretta della realtà sensibile. Così il contadino conosce la realtà molto meglio di un intellettuale. Per questo i maggiori no-global sono contadini, almeno come origine.

Il tempo industriale

Il tempo contadino viene scalzato gradualmente dal tempo industriale, che introduce quella freccia unidirezionale solitamente chiamata progresso. Il tempo assume un aspetto di movimento da un passato verso un futuro.

Ancora fino a Machiavelli "tutti li tempi tornano e li uomini restano sempre li medesimi".
Con L'Illuminismo (XVIII secolo, fino al 1789) appare un'elite convinta che l'uomo possa prendere la propria vita nelle sue mani e decidere il proprio futuro.
Si spezza così la simmetria tra passato e futuro che era stata assunta implicitamente come valida per millenni. Appare una visione finalistica della storia, presumibilmente influenzata dall'escatologia cristiana. Compare il mito del progresso.
Ma perchè questa visione si propaghi alle masse serve la rivoluzione industriale (fine del XVIII secolo), la quale si propaga a macchie di leopardo nei diversi paesi. Nel XX secolo tutti condividono il tempo unidirezionale basato sull'idea di progresso.
A questa tipologia di tempo si associano le grandi ideologie (l'Illuminismo, il marxismo, lo scientismo). Ma l’ideologia vincente è il capitalismo.
L'eccesso di merce tipico del capitalismo porta gradualmente alla società dei consumi.

Il tempo dello spettacolo

L’eccesso di merci provoca la necessità di distruggerle con regolarità, non c’è più accumulo ma un ciclo frenetico di produzione, consumo e distruzione.

L’accelerazione dei processi sociali è [...] ormai un processo inarrestabile, ingovernabile, fatale. Alimentata dai meccanismi del desiderio, della seduzione e del consumo, in cui i soggetti diventano pedine impotenti di un gioco sistemico che non solo non riescono più a governare, ma da cui sono inesorabilmente governati, l'irrealtà, cioè la virtualità, dilaga in modo incontenibile e incontrollabile. Senza la possibilità di congetturare né un happy end né qualcosa come un buco nero sociale in cui l'ordine attuale imploda. (Baudrillard)

Nella società dei consumatori, quella che per Debord è la società dello spettacolo, il tempo si congela e si ferma. Resta solo la rappresentazione di un eterno presente, senza passato, senza futuro, senza storia. Tutte le ideologie evaporano e resta solo la religione del consumo.

Il tempo consumistico/terroristico è analogo a quello della fiaba: tutti i giorni sarebbero perfetti per divertirsi all'infinito (come nel paese dei balocchi) se non ci fosse il cattivo di turno a spezzare l'armonia: Satana, Hitler, Saddam Hussein, Bin Laden ...

E' opportuno precisare che il congelamento del tempo non è la Fine della storia preconizzata da Francis Fukuyama; anzi la storia avanza oggi furiosamente mentre le masse non sono più in grado di vederla.

Sempre di più

Man mano che avanza la religione consumistica le giornate più pesanti, quelle più faticose, diventano quelle del fine settimana.
La religione consumistica pretende ormai due giorni riservati (il sabato e la domenica) per i suoi riti, al posto del singolo giorno (sabato o domenica) delle religioni precedenti.



Nella società dello spettacolo tutte le ore di vita sono ore lavorative (il consumatore lavora e non lo sa, diceva Baudrillard). Va notato che le ore del sonno sono tra le più importanti per il lavoro/consumo. Durante il sonno si rielaborano gli spettacoli quotidiani e ci si prepara ai successivi spettacoli sempre più surreali.

Ma chi sfugge a questo meccanismo infernale recupera molto tempo per fare i propri interessi. Qui ci si rende conto che la quantità di lavoro necessaria per vivere è calata nel corso del tempo. Si riesce così a recuperare il tempo dell’ozio, quel tempo necessario per vivere la propria vita e riflettere sui suoi valori.

Truman Burbank

Il dilemma agricolo: cibo e popolazione



L´agricoltura mondiale è davanti ad un dilemma che sembra irrisolvibile: come alimentare una popolazione mondiale in rapida crescita demografica (e di consumi) e come conservare la biodiversità e gestire le risorse naturali di un pianeta sempre più povero di materie prime. "Agricultural Ecosystems: Facts & Trends", una recente pubblicazione di World business council for sustainable development (Wbcsd) e dell´International union for conservation of nature (Iucn), affronta proprio i temi cruciali della crisi alimentare globale, dell´aumento dei prezzi in molti Paesi, presentando fatti, cifre per aiutare governi, agricoltori, consumatori ed industrie a capire meglio come imboccare quella che sembra l´unica via di uscita praticabile: la gestione sostenibile degli ecosistemi agricoli.

La pubblicazione si basa su fatti e cifre che spiegano fino a quale punto preoccupante ci siamo spinti: negli ultimi 20 anni il consumo di carne in Cina è più che raddoppiato ed entro il 2030 raddoppierà ancora; la produzione di carne, latte, zucchero, olii vegetali in genere richiede più acqua che la produzione di cereali; la produzione di alimenti per soddisfare il bisogno giornaliero di una persona necessita di 3.000 litri d´acqua, più di un litro per ogni caloria; l´agricoltura è responsabile del 14% delle emissioni globali di gas serra; i suoli del pianeta contengono più carbonio di quanto complessivamente ne venga assorbito dalla vegetazione e ce ne sia in atmosfera; l´agricoltura utilizza il 70% del totale globale dei prelievi idrici (la cosiddetta "Blue water") da fiumi, laghi e falde sotterranee, la maggior parte della quale viene utilizzata per l´irrigazione; solo il 17% di tutti i campi coltivati è irrigato, ma da qui viene il 30 – 40% dell´intera produzione alimentare del pianeta; il 60% della superficie irrigata a livello mondiale è in Asia, la maggior parte è destinata alla produzione di riso; negli ultimi 40 anni la superficie dei terreni agricoli è cresciuta del 10% a livello mondiale, ma la superficie agricola pro-capite è diminuita, una tendenza che sembra destinata a continuare per ancora molto tempo, con terra disponibile (e coltivabile) sempre più limitata e popolazione mondiale in crescita.

Il genere umano rischia di trovarsi davanti (e probabilmente già c´è) ad un problema inestricabile: occupare tutta la terra disponibile per mangiare o intaccare drammaticamente, fino a perderli, la biodiversità e i servizi eco-sistemici che permettono all´intera catena del vivente (esseri umani compresi) di sopravvivere? Secondo Björn Stigson, presidente del Wbcsd, «E´ fondamentale lavorare su tutta la catena del valore agricolo per raggiungere l´obiettivo di fornire prodotti alimentari sani e accessibili a tutti, tutelando l´ambiente. Questo significa che sono essenziali la cooperazione il coordinamento tra tutti i soggetti interessati».

E il direttore dell´Iucn, Juilia Marton-Lefevre, entra più nei particolari di quello che sembra un necessario nuovo approccio alla produzione agricola (che non è esattamente ciò di cui si è parlato ai Doha round dell´Organizzazione mondiale del commercio) «La conservazione degli ecosistemi e della loro biodiversità deve essere un obiettivo condiviso dal settore produttivo, dalla comunità della conservazione ambientale e dai consumatori. Niente è più importante quanto il fatto che l´agricoltura dipende direttamente dalla natura. I tempi stretti dei mercati agricoli rendono ancora più urgente comprenderlo».

greenreport.it

29.7.08

Confessioni di un sicario economico


Fra di loro si definiscono confidenzialmente “E.H.M”, o Economic Hit-Man (sicario economico), anche se ufficialmente sono dei noti e rispettati personaggi della finanza mondiale.

Uno di questi è John Perkins, che dopo una lunga e brillante carriera nel settore ha pubblicato un libro, “Confessions of an economic hit-man”, nel quale racconta per filo e per segno come venisse pagato profumatamentre per aiutare gli Stati Uniti a ingannare i paesi poveri nel mondo, con prestiti di miliardi di dollari che questi paesi non avrebbero mai potuto ripagare. In questo modo le corporations americane potevano in seguito impadronirsi della loro intera economia, arrivando a costruire quello che Perkins definisce un vero e proprio impero moderno.

A parte la “conversione” ben poco convincente di Perkins, il meccanismo da lui descritto aiuta a comprendere meglio dozzine e dozzine di situazioni nel mondo che inizialmente ci appaiono velate da una strana ambiguità. Come dice il proverbio, “follow the money”, e arrivi sicuramente alla verità. (M.M.)
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Seguono alcuni estratti dell’intervista che Perkins ha concesso a “Democracy Now!” di Amy Goodman.

“Confessioni di un sicario economico” – di John Perkins

Venivamo preparati per il nostro lavoro, che era quello di costruire l’impero americano. Dovevamo creare delle situazioni in cui la maggior parte possibile di risorse fluisse verso il nostro paese, verso le nostre corporations, il nostro governo, e in questo abbiamo avuto un grande successo.

Abbiamo costruito il più grande impero nella storia dell’umanità. Ciò è accaduto negli ultimi cinquant’anni, a partire dalla seconda guerra mondiale, e con un uso assolutamente minimo di forza militare. Soltanto in casi eccezionali, come quello dell’Iraq, ...
... si utilizza l’esercito come ultima risorsa.

Questo impero, a differenza di ogni altro impero nella storia, è stato costruito prima di tutto attraverso la manipolazione economica, attraverso l’inganno, attraverso la frode, attraverso la seduzione degli altri verso il nostro modo di vita, e attraverso l’uso dei sicari economici come me.

Fui reclutato in una scuola di economia, sul finire degli anni 60, dalla NSA (National Security Agency), la più grande e meno compresa organizzazione di spionaggio nazionale. Ma in ultima analisi lavoravo per le corporations private.

Il primo vero sicario economico risale agli anni 50: era Kermit Roosevelt, il nipote di Teddy, che rovesciò il governo dell’Iran - un governo democraticamente eletto – di Mossadegh. Kermit fu così bravo nell’ottenere quel risultato senza versare una goccia di sangue – beh, un po’ di sangue fu versato, ma non vi fu un intervento militare – e con una spesa di alcuni milioni di dollari rimpiazzammo Mossadegh con lo Scià dell’Iran. A quel punto capimmo che questa idea del sicario economico era ottima.

Quando agivamo in questo modo, non dovevamo preoccuparci della Russia. Il problema è che Roosevelt era un agente della CIA, era un impiegato del governo, e se fosse stato scoperto avrebbe causato notevoli complicazioni. A quel punto si prese la decisione di utilizzare le organizzazioni come la CIA e la NSA solo per reclutare potenziali sicari economici come me, per poi mandarli a lavorare per compagnie private di consulenza, società di ingegneria, compagnie di costruzione, in modo che se fossimo stati scoperti non vi sarebbe stato alcun collegamento con il governo.

Io lavoravo per una compagnia chiamata Chas. T. Main di Boston, nel Massachusetts. Eravamo circa 2 mila impiegati, e io ero il capo del settore economico. Sono arrivato ad avere fino a 50 persone che lavoravano per me. Ma il mio vero lavoro era quello di concludere affari. Facevo dei prestiti ad altre nazioni, prestiti enormi, molto più grandi di quelli che avrebbero mai potuto ripagare. Una delle condizioni del prestito – diciamo ad esempio un miliardo di dollari, ad un paese come l’Indonesia o l’Ecuador - era che il paese avrebbe dovuto restituire il 90% del denaro a una società americana che costruisse le sue infrastrutture, come la Halliburton o la Bechtel, che erano le più grandi.

Queste società andavano nel paese e costruivano un sistema elettrico, dei porti, o delle autostrade, che in realtà servivano solo alle poche famiglie benestanti del paese, mentre la povera gente restava con un debito sulla gobba che non avrebbe mai potuto ripagare. Un paese come l’Ecuador oggi deve versare più del 50% per suo prodotto lordo nazionale per pagare i suoi debiti, e in realtà non ce la può fare. Con loro abbiamo quindi il coltello dalla parte del manico. Se un giorno, ad esempio, vogliamo più petrolio, andiamo in Ecuador e diciamo: “Voi non siete in grado di ripagare vostro debito, per cui date alle nostre società le vostre foreste amazzoniche, che sono piene di petrolio”. Dopodichè noi arriviamo, distruggiamo la foresta dell’Amazzonia e obblighiamo l’Ecuador a darla noi, a causa del debito che ha accumulato.

Quando facciamo questi grandi prestiti, la maggior parte dei soldi torna comunque negli Stati Uniti, mentre il paese rimane con il debito, più un interesse enorma da pagare, e questi diventano praticamente i nostri servi, i nostri schiavi. È un impero, non c’è altro modo di definirlo. È un impero enorme, e in questo noi abbiamo avuto grande successo.

Quando mi hanno reclutato, quelli della NSA mi hanno sottoposto a una lunga serie di test della verità. Hanno scoperto tutte le mie debolezze, e mi hanno immediatamente sedotto. Hanno usato le droghe più potenti della nostra cultura, il sesso il potere e i soldi, per convincermi a passare dalla loro parte.

Se non avessi vissuto la vita di un sicario economico, farei molta fatica a credere che queste cose accadano. Ora invece ho scritto questo libro perché il nostro paese ha bisogno di capire: se la gente di questa nazione capisce come funziona davvero la nostra politica economica, che cosa è l’aiuto ai paesi poveri, come funzionano le nostre corporations, dove vanno a finire i soldi delle nostre tasse, so che esigerà un cambiamento.

Ricordate, quando all’inizio degli anni ‘70 l’OPEC faceva tutto quello che voleva, e ci razionava le importazioni di petrolio? Noi facevamo lunghe code in macchina alla stazione di servizio, e il paese aveva paura di dover affrontare un'altra depressione come quella del ’29. Questo per noi era inaccettabile, e a quel punto il Ministero del Tesoro ha reclutato me e alcuni altri sicari economici, e siamo partiti per l’Arabia Saudita.
Sapevamo che l'Arabia Saudita era la chiave di volta per uscire dalla nostra schiavitù e prendere in mano la situazione. E così abbiamo messo a punto un accordo, grazie al quale la Reale Casa saudita avrebbe rispedito negli Stati Uniti la maggior parte dei petroldollari, e li avrebbe investiti in titoli governativi. Il Ministero del Tesoro avrebbe usato gli interessi di questi titoli per finanziare società americane che costruissero in Arabia Saudita nuove città e nuove infrastrutture -cosa che abbiamo fatto.

La Casa Reale saudita si impegnava a mantenere il prezzo del petrolio entro limiti accettabili per noi - cosa che negli anni ha sempre fatto - mentre noi ci impegnavamo a mantenere al potere la Reale Casa saudita.

Questo è uno dei motivi principali per cui siamo scesi in guerra con l’Iraq. In Iraq avevamo provato a implementare lo stesso tipo di strategia che aveva avuto così tanto successo in Arabia Saudita, ma Saddam Hussein non ci era cascato.

Quando i sicari economici falliscono nel loro obiettivo, entrano in gioco gli sciacalli, ovvero gli agenti della CIA, che si infiltrano nel paese e cercano di fomentare un colpo di stato, o una rivoluzione. Se anche quello non funziona, provano con l’assassinio vero e proprio. Ma nel caso dell’Iraq non riuscivano a colpire Saddam Hussein, che aveva molti sosia e delle ottime guardie del corpo, e non si riusciva a farlo fuori. A quel punto è subentrata la terza linea strategica, nella quale i nostri giovani uomini e donne vengono mandati a uccidere ed essere uccisi, che è quello che chiaramente è successo in Iraq.

Io mi sono sempre sentito in colpa, fin dall’inizio, ma ero sedotto dal potere delle droghe moderne - sesso potere e denaro - che avevano un forte ascendente su di me. E inoltre venivo continuamente complimentato per quello che facevo, ero “capo economista“, e facevo cose che piacevano molto a Robert Mac Namara.

Ho sempre lavorato molto, molto da vicino con la Banca Mondiale. La Banca Mondiale fornisce la maggior parte dei soldi che vengono usati dai sicari economici. Ma dopo l’11 settembre qualcosa è cambiato dentro di me. Sapevo che questa storia andava raccontata, perché quello che è accaduto l’11 settembre è il diretto risultato del lavoro dei sicari economici. E l’unico modo in cui torneremo a sentirci sicuri in questo paese, l’unico modo in cui torneremo a sentirci bene, è usando i sistemi che abbiamo messo in atto per creare un cambiamento positivo nel mondo. Sono profondamente convinto che questo sia possibile. Io credo che la Banca Mondiale e altre istituzioni possano essere re-indirizzate a fare quello che dovevano fare originariamente, e cioè aiutare a ricostruire le parti più devastate del mondo. Aiutare la povera gente. Ci sono 24 mila esseri umani che muoiono di fame ogni giorno, e noi questo possiamo cambiarlo.

di Massimo Mazzucco