31.5.08

Gaza Theatre


Amnesty International has reported on Wednesday that the situation in Gaza "is the gravest humanitarian crisis to date".


Amnesty's 60th annual report said that over 370 Palestinians were killed by the Israeli army, of which half were civilians and 50 were children. Thousands were injured during the attacks.


Israeli forces threaten to demolish several houses in Bethlehem and Hebron

"in June, the Israeli government imposed an unprecedented blockade on the Gaza Strip, virtually imprisoning its entire 1.5 million people population, subjecting them to collective punishment and causing the gravest humanitarian crisis to date." the report stated.

The report added that "more than 550 Israeli military checkpoints and blockades restricted or prevented the movement of Palestinians between towns and villages in the West Bank," and that " dozens of Palestinians died after being refused passage out of Gaza for urgent medical treatment not available in local hospitals."

The report also talked about the illegal settlements construction, as well as the construction of the separation wall, which separate many Palestinians from their lands and families.

Israeli forces on Wednesday handed warrants to several Palestinian residents in Hebron and Bethlehem in the southern, West Bank telling them that their houses will be demolished by 19 June 2008.

The authorities claim the houses were built without proper building permits. Some of the warrants are also threatening that recently planted agricultural land will be razed. The authorities are claiming this land is located in Area C according to the classification under the Oslo Accords.

Khalid Al-Azza, head of the Popular Committee for Defending Lands and Countering Occupation and the Separation Wall, said in a statement that the demolition of houses and the digging up of fields are crimes against humanity.

He affirmed that such procedures violate the Fourth Geneva Convention and other international resolutions related to the Palestinian question. He called on the Secretary General of the UN, the African Unity Organization, the Islamic Conference Organization, the non-partisan countries and the whole international community to exert efforts to stop such "criminal acts committed by Olmert's government against the Palestinian people."

He also called on the Palestinian Authority to halt negotiations with Israel.

Al-Azza named the villages and towns where houses are threatened to be demolished as Al-Khadir, Beit Jala, Husan, Khirbat Zakariyya in the Bethlehem district, and Beit Ummar in the Hebron district.

In Al-Khadir, five houses and a water reservoir measuring 100 square meters are threatened with demolition. The houses are a four-storey house measuring 880 square meters, belonging to Ahmad Mousa; a one-storey house measuring 100 square meters belonging to Muhammad Salah; a two-storey house measuring 400 square meters belonging toAhmad Abu Hatab; a one-storey house measuring 120 square meters belonging to Ahmad Mousa and a one-storey house measuring 75 square meters belonging to Ali Mousa.

In Khirbat Zakariyya, three houses are threatened with demolition, belonging to Muhammad Sa'd, Ayman Sa'd and Mahmoud Sa'd.

In Husan, a container, a cement floor, an arbor and a car wash are threatened with demolition. They belong to Muhammad Issa. Furthermore, Khalil Hamamra received a warrant that two stores measuring 120 square meters will be demolished.

In Beit Jala, a house belonging to Yousif Musallam, measuring 100 square meters is threatened with demolition.

In Beit Ummar, north of Hebron, Muhammad Kawamla received a warrant telling him that 3.5 donums of his land will be dug up and that he could not use the land for agriculture or building purposes.

Lo Stato di Israele sempre in pericolo?


Lo spirito di sopravvivenza, il più forte che uccide il più debole. Una spirale ancestrale che si ripete da molti anni.
Il popolo ebraico è sempre in pericolo e la sua sopravvivenza è condizionata da quella dello Stato d’Israele. Su questa base, questo Stato può intraprendere qualsiasi cosa, affrancandosi dalle regole morali, sino a quando lo giudichi necessario per la sopravvivenza del popolo ebraico.Quindi, «l’argomento della Shoah» dispensa lo lo Stato d’Israele dal rispettare il diritto internazionale.



Poche persone non convengono con il fatto che tutti i dirigenti ebraici, tutte le organizzazioni ebraiche, tutte le comunità ebraiche, e tutti i singoli ebrei hanno il dovere di assumersi la continuità del popolo ebraico. Ma, in un mondo dove l’esistenza nel lungo periodo dello Stato d’Israele è lontana dall’essere garantita, l’imperativo di esistere dà luogo, inevitabilmente, a domande difficili.

La principale è la seguente: quando la sopravvivenza del polopolo ebraico entra in conflitto con la morale del popolo ebraico, la sua esistenza vale la candela, o anche, questa esistenza è possibile?

L’esistenza fisica, tenderei ad arguire, ha la precedenza. L’esistenza fisica è necessariamente un preambolo, per quanto morale una società aspiri ad essere.

Israele, in quanto Stato ebraico, è minacciato da pericoli manifesti, sia interni che esterni. E’ molto verosimile che il crollo d’Israele o la sua perdita d’identità ebraica, avrebbe come conseguenza lo scalzamento del popolo ebraico nel suo insieme. Anche nell’esistenza stessa di uno Stato ebraico, dei pericoli meno evidenti, ma non meno fatali, minacciano l’esistenza durevole della diaspora nel lungo termine. Quando le necessità per l’esistenza entrano in conflitto con altri valori, conseguentemente, la Realpolitik dovrebbe avere la precedenza.

Dopo la minaccia di un conflitto disastroso con dei protagonisti islamici quale l’ Iran, fino alla necessità di mantenere dei distinguo tra «noi» e gli «altri» in modo da limitare l’assimilazione, questo imperativo dovrebbe servire da guida per i decisionisti politici.

Sfortunatamente, la storia umana rigetta l’affermazione idealista che, uno Stato, una società o il suo popolo, per soppravivere debbano avere un atteggiamento morale. Date le realtà prevedibili del 21° secolo e anche quelle future, sono inevitabili delle scelte corneliane , per le quali le necessità esistenziali contraddicono spesso, altri valori importanti.

Alcuni potrebbero arguire che dare la priorità all’esistenza, potrebbe al fine divenire controproducente per la stessa, in quanto quello che puo’ essere giudicata un azione immorale potrebbe scalzarne il sostegno, tanto interno quanto esterno, essenziale per lo Stato d’Israele. Comunque la logica propria della Realpolitik dà il primato all’esistenza,
relegando agli ultimi posti una qualsiasi considerazione etica.

La triste realtà è, che il popolo ebraico rischia di essere confrontato con delle scelte tragiche, per le quali devono essere sacrificati valori importanti, nell’interesse di quelli ancora più importanti. Decisioni responsabili, in situazioni così difficili, richiedono una presa di conoscenza senza ambiguità riguardo alle questioni morali in causa, soppesando con cura tutti i valori e tutte le assunzioni di responsabilità nel formare un proprio giudizio autonomo. Queste decisioni esigono anche uno sforzo, e per quanto sia possibile, la violazione di valori morali.

Ciononostante, il popolo ebraico confrontato con tali dilemmi, non si deve far ingannare dal politicamente corretto, né da altre mode suscettibili di ostacolarne il pensiero.

Trattandosi della Cina, per esempio, certi sforzi tendenti a rafforzare i legami tra la superpotenza e il popolo ebraico, dovrebbero mettere la sordina alle campagne ben intenzionate tendenti a interferire con la politica interna di Pechino, in modo specifico nel suo modo di gestire la questione del Tibet. Lo stesso discorso vale per la Turchia, dato il ruolo cruciale di pacificatore che esso ha in Medio Oriente: il dibattito sulla questione armena dovrebbe essere lasciato agli storici, di preferenza non ebrei.

Questo non significa necessariamente sostenere la politica cinese, né denigrare quella armena, ma tener presente che il popolo ebraico deve pensare in primo luogo alla sua esistenza, per quanto morali o immorali queste prese di posizioni possano essere.

E’ richiesta una valutazione dei valori a priori, in modo da poter disporre di guide pronte per formare un giudizio nei contesti specifici, o in condizioni di crisi. Più globalmente si tratta di stabilire se, l’imperativo per il popolo ebraico consista nell’esistere, al punto da superare la quasi totalità degli altri valori, oppure se si tratti di un imperativo confuso ad altri di rango similare. Data sia la storia che la situazione attuale del popolo ebraico, sarei propenso a dire che l’imperativo sia il primo e precede tutti gli alti.

Lasciamo da parte tutti i discorsi di natura trascendentale, i comandamenti biblici, e le parole sagge, che sono le une come le altre soggette a interpretazioni diverse. La giustificazione della priorità che deve essere accordata alla necessità dell’ esistenza è quadrupla:

Primo, il popolo ebraico ha un diritto inerente all’esistenza, esattamente come qualsiasi altro popolo o altra civilizzazione.

Secondo, un popolo che è stato regolarmente perseguitato da più di mille anni è moralmente autorizzato, in termini di giustizia distributiva, a essere particolarmente impietoso quando si tratta di prendersi cura della propria esistenza specialmente in materia di diritto morale, che dico, di dovere di uccidere e essere ucciso, se questo è essenziale per garantire la sua esistenza; anche al costo di altri valori e altre persone. Questo argomento è tanto più imparabile, alla luce di tutte le uccisioni senza precedenti di qualche decennio fa, di un terzo del popolo ebreo; un crimine di massa che è stato sostenuto direttamente e indirettamente, o almeno non è stato impedito quando era possibile, da delle larghe frange del mondo civile.

Terzo, in base alla storia dell’ ebraismo e la storia del suo popolo, ci sono delle forti possibilità che noi continueremo a dare all’ umanità dei contributi etici particolarmente necessari. Tuttavia per poterlo fare, abbiamo bisogno di una esistenza stabile.

Quarto, lo Stato d’Israele è il solo paese democratico la cui stessa esistenza è messa in pericolo da personaggi particolarmente ostili, senza che, ancora una volta, il mondo prenda delle contromisure decisive, che si impongono. Questo giustifica, anzi lo implica. Delle misure non solo inutili, ma potenzialmente immorali in altre circostanze.
Il popolo ebraico deve accordare molto più peso a quello che è il proprio imperativo, per garantire la sua sopravvivenza.

Ci sono beninteso dei limiti; niente potrebbe giustificare un genocidio. Ma, a parte delle rare eccezioni, o essere uccisi e distrutti , la trasgressione di norme assolute e totalizzanti è preferibile. L’esistenza del popolo ebraico compreso quello dello Stato d’Israele, deve essere considerata la prima priorità.

La sicurezza di Israele è sostenuta in maniera significativa dalle buone relazioni con la Turchia e la Cina. Alcuni argomentano che la Turchia è colpevole di genocidio contro gli Armeni in passato, e che la Cina oggi sta reprimendo i Tibetani e la sua opposizione interna ; che i dirigenti e le organizzazioni ebraiche devono sostenere i due Paesi, o almeno restare neutri nei loro confronti. Come minimo i dirigenti ebraici non devono accodarsi alle organizzazioni umanitarie che condannano la Turchia e la Cina.

Nello stesso modo, i dirigenti ebraici devono sostenere invece le durissime misure prese contro dei terroristi che, potenzialmente mettono gli ebrei in pericolo, fosse anche al prezzo di violazioni dei Diritti dell’ Uomo e del Diritto Umanitario Internazionale.

Se la minaccia è sufficientemente grave, il ricorso a armi di distruzione di massa da parte di Israele sarebbe giustificato, dal momento in cui sarebbe manifestamente necessario per assicurare la sopravvivenza di Israele, qualsiasi sia il numero imponente di vittime civili innocenti.

Non c’è dubbio, il dibattito sul sapere cosa sia veramente necessario all’esistenza resta aperto. Il fatto di donare la priorità all’ imperativo di esistere non implica necessariamente che si sostenga dalla A alla Z la politica di Israele.

Infatti è vero il contrario; i dirigenti, le organizzazioni e gli individui della diaspora hanno il dovere di criticare la politica israeliana, che, dal loro punto di vista, mette in pericolo lo Stato ebraico e l’esistenza del suo popolo. Essi hanno il dovere di proporre politiche alternative che ne garantiscano l’esistenza.

Ma in fin dei conti, non c’è nessun modo per aggirare le implicazioni pratiche, impietose e dolorose, di dare la priorità all’ esistenza, in quanto norma morale superiore, per il fatto di essere morali sotto altri aspetti. Quando questo è importante per l’esistenza del popolo ebraico, la violazione dei diritti altrui deve essere accettata, con disappunto certamente, ma con determinazione. Il sostegno o la condanna di altri Paesi e delle loro rispettive politiche devono essere eliminati prima di tutto, alla luce delle probabili conseguenze su questo giudizio per l’esistenza del popolo ebraico.

Riassumendo: gli imperativi per l’esistenza devono essere accordati con la priorità su altre condizioni per quanto importanti possano essere tra le quali i valori progressisti e umani, o ancora il sostegno dei Diritti dell’Uomo e la democratizzazione. Questa conclusione tragica, pertanto finale, non è facile da accettare, ma è essenziale per il futuro del popolo ebraico.

Una volta garantita la nostra esistenza, ciò che include la sicurezza fondamentale per Israele, molto può e deve essere sacrificato sull’altare del tikkun olam ( ebr. “riparazione del mondo” n.d.t.). Ma stante le realtà prevedibili presenti e future, la garanzia dell’esistenza è la priorità delle priorità.

Yehezkel Dror

Presidente fondatore del Jewhis People Policicy Planning Institute, e professore emerito in scienze politiche all’ Università ebraica di Gerusalemme. Vincitore del Premio Israele nel 2005, ha fatto parte della commissione d’inchiesta Winograd, sulla guerra israeliana contro il Libano nell’estate del 2006
Poche persone non convengono con il fatto che tutti i dirigenti ebraici, tutte le organizzazioni ebraiche, tutte le comunità ebraiche, e tutti i singoli ebrei hanno il dovere di assumersi la continuità del popolo ebraico. Ma, in un mondo dove l’esistenza nel lungo periodo dello Stato d’Israele è lontana dall’essere garantita, l’imperativo di esistere dà luogo, inevitabilmente, a domande difficili.

La principale è la seguente: quando la sopravvivenza del polopolo ebraico entra in conflitto con la morale del popolo ebraico, la sua esistenza vale la candela, o anche, questa esistenza è possibile?

L’esistenza fisica, tenderei ad arguire, ha la precedenza. L’esistenza fisica è necessariamente un preambolo, per quanto morale una società aspiri ad essere.

Israele, in quanto Stato ebraico, è minacciato da pericoli manifesti, sia interni che esterni. E’ molto verosimile che il crollo d’Israele o la sua perdita d’identità ebraica, avrebbe come conseguenza lo scalzamento del popolo ebraico nel suo insieme. Anche nell’esistenza stessa di uno Stato ebraico, dei pericoli meno evidenti, ma non meno fatali, minacciano l’esistenza durevole della diaspora nel lungo termine. Quando le necessità per l’esistenza entrano in conflitto con altri valori, conseguentemente, la Realpolitik dovrebbe avere la precedenza.

Dopo la minaccia di un conflitto disastroso con dei protagonisti islamici quale l’ Iran, fino alla necessità di mantenere dei distinguo tra «noi» e gli «altri» in modo da limitare l’assimilazione, questo imperativo dovrebbe servire da guida per i decisionisti politici.

Sfortunatamente, la storia umana rigetta l’affermazione idealista che, uno Stato, una società o il suo popolo, per soppravivere debbano avere un atteggiamento morale. Date le realtà prevedibili del 21° secolo e anche quelle future, sono inevitabili delle scelte corneliane , per le quali le necessità esistenziali contraddicono spesso, altri valori importanti.

Alcuni potrebbero arguire che dare la priorità all’esistenza, potrebbe al fine divenire controproducente per la stessa, in quanto quello che puo’ essere giudicata un azione immorale potrebbe scalzarne il sostegno, tanto interno quanto esterno, essenziale per lo Stato d’Israele. Comunque la logica propria della Realpolitik dà il primato all’esistenza,
relegando agli ultimi posti una qualsiasi considerazione etica.

La triste realtà è, che il popolo ebraico rischia di essere confrontato con delle scelte tragiche, per le quali devono essere sacrificati valori importanti, nell’interesse di quelli ancora più importanti. Decisioni responsabili, in situazioni così difficili, richiedono una presa di conoscenza senza ambiguità riguardo alle questioni morali in causa, soppesando con cura tutti i valori e tutte le assunzioni di responsabilità nel formare un proprio giudizio autonomo. Queste decisioni esigono anche uno sforzo, e per quanto sia possibile, la violazione di valori morali.

Ciononostante, il popolo ebraico confrontato con tali dilemmi, non si deve far ingannare dal politicamente corretto, né da altre mode suscettibili di ostacolarne il pensiero.

Trattandosi della Cina, per esempio, certi sforzi tendenti a rafforzare i legami tra la superpotenza e il popolo ebraico, dovrebbero mettere la sordina alle campagne ben intenzionate tendenti a interferire con la politica interna di Pechino, in modo specifico nel suo modo di gestire la questione del Tibet. Lo stesso discorso vale per la Turchia, dato il ruolo cruciale di pacificatore che esso ha in Medio Oriente: il dibattito sulla questione armena dovrebbe essere lasciato agli storici, di preferenza non ebrei.

Questo non significa necessariamente sostenere la politica cinese, né denigrare quella armena, ma tener presente che il popolo ebraico deve pensare in primo luogo alla sua esistenza, per quanto morali o immorali queste prese di posizioni possano essere.

E’ richiesta una valutazione dei valori a priori, in modo da poter disporre di guide pronte per formare un giudizio nei contesti specifici, o in condizioni di crisi. Più globalmente si tratta di stabilire se, l’imperativo per il popolo ebraico consista nell’esistere, al punto da superare la quasi totalità degli altri valori, oppure se si tratti di un imperativo confuso ad altri di rango similare. Data sia la storia che la situazione attuale del popolo ebraico, sarei propenso a dire che l’imperativo sia il primo e precede tutti gli alti.

Lasciamo da parte tutti i discorsi di natura trascendentale, i comandamenti biblici, e le parole sagge, che sono le une come le altre soggette a interpretazioni diverse. La giustificazione della priorità che deve essere accordata alla necessità dell’ esistenza è quadrupla:

Primo, il popolo ebraico ha un diritto inerente all’esistenza, esattamente come qualsiasi altro popolo o altra civilizzazione.

Secondo, un popolo che è stato regolarmente perseguitato da più di mille anni è moralmente autorizzato, in termini di giustizia distributiva, a essere particolarmente impietoso quando si tratta di prendersi cura della propria esistenza specialmente in materia di diritto morale, che dico, di dovere di uccidere e essere ucciso, se questo è essenziale per garantire la sua esistenza; anche al costo di altri valori e altre persone. Questo argomento è tanto più imparabile, alla luce di tutte le uccisioni senza precedenti di qualche decennio fa, di un terzo del popolo ebreo; un crimine di massa che è stato sostenuto direttamente e indirettamente, o almeno non è stato impedito quando era possibile, da delle larghe frange del mondo civile.

Terzo, in base alla storia dell’ ebraismo e la storia del suo popolo, ci sono delle forti possibilità che noi continueremo a dare all’ umanità dei contributi etici particolarmente necessari. Tuttavia per poterlo fare, abbiamo bisogno di una esistenza stabile.

Quarto, lo Stato d’Israele è il solo paese democratico la cui stessa esistenza è messa in pericolo da personaggi particolarmente ostili, senza che, ancora una volta, il mondo prenda delle contromisure decisive, che si impongono. Questo giustifica, anzi lo implica. Delle misure non solo inutili, ma potenzialmente immorali in altre circostanze.
Il popolo ebraico deve accordare molto più peso a quello che è il proprio imperativo, per garantire la sua sopravvivenza.

Ci sono beninteso dei limiti; niente potrebbe giustificare un genocidio. Ma, a parte delle rare eccezioni, o essere uccisi e distrutti , la trasgressione di norme assolute e totalizzanti è preferibile. L’esistenza del popolo ebraico compreso quello dello Stato d’Israele, deve essere considerata la prima priorità.

La sicurezza di Israele è sostenuta in maniera significativa dalle buone relazioni con la Turchia e la Cina. Alcuni argomentano che la Turchia è colpevole di genocidio contro gli Armeni in passato, e che la Cina oggi sta reprimendo i Tibetani e la sua opposizione interna ; che i dirigenti e le organizzazioni ebraiche devono sostenere i due Paesi, o almeno restare neutri nei loro confronti. Come minimo i dirigenti ebraici non devono accodarsi alle organizzazioni umanitarie che condannano la Turchia e la Cina.

Nello stesso modo, i dirigenti ebraici devono sostenere invece le durissime misure prese contro dei terroristi che, potenzialmente mettono gli ebrei in pericolo, fosse anche al prezzo di violazioni dei Diritti dell’ Uomo e del Diritto Umanitario Internazionale.

Se la minaccia è sufficientemente grave, il ricorso a armi di distruzione di massa da parte di Israele sarebbe giustificato, dal momento in cui sarebbe manifestamente necessario per assicurare la sopravvivenza di Israele, qualsiasi sia il numero imponente di vittime civili innocenti.

Non c’è dubbio, il dibattito sul sapere cosa sia veramente necessario all’esistenza resta aperto. Il fatto di donare la priorità all’ imperativo di esistere non implica necessariamente che si sostenga dalla A alla Z la politica di Israele.

Infatti è vero il contrario; i dirigenti, le organizzazioni e gli individui della diaspora hanno il dovere di criticare la politica israeliana, che, dal loro punto di vista, mette in pericolo lo Stato ebraico e l’esistenza del suo popolo. Essi hanno il dovere di proporre politiche alternative che ne garantiscano l’esistenza.

Ma in fin dei conti, non c’è nessun modo per aggirare le implicazioni pratiche, impietose e dolorose, di dare la priorità all’ esistenza, in quanto norma morale superiore, per il fatto di essere morali sotto altri aspetti. Quando questo è importante per l’esistenza del popolo ebraico, la violazione dei diritti altrui deve essere accettata, con disappunto certamente, ma con determinazione. Il sostegno o la condanna di altri Paesi e delle loro rispettive politiche devono essere eliminati prima di tutto, alla luce delle probabili conseguenze su questo giudizio per l’esistenza del popolo ebraico.

Riassumendo: gli imperativi per l’esistenza devono essere accordati con la priorità su altre condizioni per quanto importanti possano essere tra le quali i valori progressisti e umani, o ancora il sostegno dei Diritti dell’Uomo e la democratizzazione. Questa conclusione tragica, pertanto finale, non è facile da accettare, ma è essenziale per il futuro del popolo ebraico.

Una volta garantita la nostra esistenza, ciò che include la sicurezza fondamentale per Israele, molto può e deve essere sacrificato sull’altare del tikkun olam ( ebr. “riparazione del mondo” n.d.t.). Ma stante le realtà prevedibili presenti e future, la garanzia dell’esistenza è la priorità delle priorità.

Yehezkel Dror

Presidente fondatore del Jewhis People Policicy Planning Institute, e professore emerito in scienze politiche all’ Università ebraica di Gerusalemme. Vincitore del Premio Israele nel 2005, ha fatto parte della commissione d’inchiesta Winograd, sulla guerra israeliana contro il Libano nell’estate del 2006

29.5.08

3000 case palestinesi da confiscare e demolire



Vittime e carnefice un sottile gioco fra i buoni e i cattivi. Ma, la scelta non lo decidono i popoli, ma organi potenti che prendono ordini da Dio. Mi sembra un film comico di Jerry Calà.

Attualmente ci sono 3 mila ordini israeliani di demolizione di abitazioni palestinesi in Cisgiordania, che possono essere eseguite in via immediata e senza preavviso»: così l’ultimo rapporto dell’Ufficio ONU per gli Affari Umanitari (1). Il rapporto specifica che le case da demolire sono situate nella cosiddetta «Area C», che comprende il 60% del territorio cisgiordano, e che gli isrealiani mantengono sotto il loro controllo.

Si tratta del territorio governato, si fa per dire, dal pieghevole Abu Mazen, capo di quel che resta di Fatah; ora si vede bene che Hamas ha ragione a non piegarsi a Gaza. Chi si piega paga un prezzo più alto e crudele: gli vengono distrutte le case, in un evidente sforzo di pulizia etnica accelerata.

L’intensificazione delle distruzioni coi bulldozer è segnalata dall’ONU: nei primi tre mesi del 2008 già 124 case sono state demolite, contro le 107 dello stesso periodo del 2007. In seguito a queste demolizioni, 435 palestinesi, fra cui 135 bambini, sono ridotti alla condizione di senzatetto.

Il motivo di tanta fretta feroce è chiaro: Bush, nella sua visita celebrativa in Israele, ha liquidato il processo di pace di Annapolis che non è mai veramente cominciato; e Israele apparentemente si affretta ad annettersi territori prima che entri alla Casa Bianca un nuovo presidente, onde creare il fatto compiuto. Del resto non ha mai avuto la minima intenzione di cedere un metro di terra: nella visione giudaica, è la terra data da Dio a loro soli.

L’intelligenza di tale mossa è posta in questione da William Pfaff: «L’Autorità Palestinese, realisticamente parlando, ha cessato di esistere: non è che un agente del governo israeliano. Ma adesso il problema per Israele è come sopravvivere come uno Stato singolo religiosamente diviso, metà libero e metà non-libero» (2). In che senso?

Seguiamo il ragionamento di Pfaff: «La sistematica colonizzazione israeliana dei territori palestinesi che dura da quarant’anni, e il parimenti sistematico rifiuto alla creazione di uno Stato palestinese indipendente - che non è più una prospettiva seria, come è chiaro dopo la recente visita di Bush - hanno trasformato Israele in uno Stato arabo-ebraico sotto controllo israeliano. Già l’allora primo ministro Ariel Sharon e l’attuale, Ehud Olmert, hanno messo in guardia la loro gente da questo. E’ per questo motivo che Sharon si ritirò da Gaza. Ma senza risolvere niente, perchè l’insediamento di nuove colonie ebraiche è continuato, e continua tutt’ora. Così, Israele si trova oggi ad essere una entità politica unica e mista, con una grossa minoranza palestinese per la quale è legalmente responsabile, e che presto diverrà maggioranza (per ragioni di crescita demografica), vivendo in condizioni di semi-apartheid. La difesa di un simile Stato non può essere definito di interesse strategico per l’Occidente. Difenderlo contro che cosa? Nessun Paese arabo ha interesse ad attaccarlo. La sola minaccia è quella ipotetica dell’Iran con la sua ancor più ipotetica bomba atomica. Ma perchè l’Iran dovrebbe attaccare, visto che Israele si è disfatto da solo come ‘Stato ebraico’? Israele avrà continui e gravi problemi interni di disordine e di controllo, se Hamas ed altri gruppi agiscono come movimenti di resistenza; ma nessun altro Stato estero può farci niente, nè voler farci niente. Il movimento sionista, ostinandosi a mantenere il possesso della Palestina e della popolazione palestinese conquistata nel 1967, ha distrutto lo Stato ebraico che sognava di creare».

Pfaff dimentica però che ad Israele resta ancora un modo per restare «Stato ebraico», razzialmente puro: il ricorso al genocidio, reso possibile dal silenzio complice e servile di USA ed Europa. Può Israele decidersi per il genocidio di una popolazione inerme, sotto gli occhi del mondo? Può.

E che in certi circoli ebraici ci si stia pensando, lo dimostra un articolo delirante scritto da Yezekhiel Dror sulla rivista ebraica americana Forward. Dror non è uno qualunque: professore emerito di scienze politiche all’università ebraica di Gerusalemme, membro della Commissione Winograd che indagò sulle falle dell’offensiva ebraica in Libano nel 2006, presiede il Jewish People Policy Planning Institute, il centro della strategia israeliana a lungo termine. Quando parla di «minacce all’esistenza stessa di Israele», è proprio ai palestinesi che pensa, e alla loro demografia che minaccia la purezza esclusiva dello Stato giudaico. Che cosa dice Dror?

Ecco: «In un mondo in cui l’esistenza stessa dello Stato ebraico è lungi dall’essere assicurata a lungo termine, l’imperativo di esistere dà origine inevitabilmente a difficili domande, di cui la prima è questa: quando la sopravvivenza del popolo ebraico entra in conflitto con la morale del popolo ebraico, la sua esistenza ne vale la pena? L’esistenza fisica, tendo a rispondere, deve venire prima».

«Pericoli manifesti, sia interni che esterni, minacciano l’esistenza stessa di Israele in quanto Stato ebraico. E’ verosimile che la perdita da parte dello Stato di Israele della sua natura (razziale) ebraica avrebbe l’effetto di minare l’esistenza del popolo ebraico nel suo complesso (...) Pericoli meno evidenti, ma non meno fatali, minacciano l’esistenza a lungo termine della diaspora», proclama Dror: l’argomento è evidentemente folle, dal momento che l’ebraismo è ben sopravvissuto per duemila anni in condizione di dispersione e senza lo Stato sionista.

Ma ora il pensiero paranoico giunge all’apice storico: proprio l’esistenza dello Stato ebraico di apartheid mette in pericolo lo Stato ebraico. Persino Dror lo riconosce fra le righe, perchè dice: «Dalla minaccia di un conflitto disastroso con nemici islamici come l’Iran, fino alla necessità di mantenere la distinzione fra ‘noi’ e ‘gli altri’ per limitare l’assimilazione, l’imperativo della esistenza di Israele deve servire di guida ai decisori politici».

Ed ecco dunque le conclusioni del professore: «Un popolo che è stato regolarmente perseguitato da duemila anni è moralmente giustificato, in termini di giustizia distributiva, ad essere particolarmente spietato quando si tratta di aver cura della propria esistenza, specie in materia di diritto morale - che dico, di dovere - di uccidere ed essere ucciso, se ciò è essenziale per garantire la propria esistenza, fosse pure al prezzo di altri valori e di altre persone. Allo stesso modo, i dirigenti ebraici devono sostenere le misure durissime prese contro terroristi che, potenzialmente, mettono in pericolo degli ebrei, anche al prezzo di violazioni di diritti dell’uomo e del diritto umanitario internazionale. E se la minaccia è particolarmente grave, il ricorso ad armi di distruzione di massa da parte di Israele è giustificato quando sia necessario ad assicurare la sopravvivenza dello Stato, per quanto grande sia il numero di vittime civili innocenti. Data la situazione attuale del popolo ebraico, l’imperativo di garantire la sua esistenza è un dovere morale imperativo, che supera tutti gli altri» (3).

Così, il giurista Dror ha dato al popolo eletto la scusa morale e persino giuridica per «essere particolarmente spietato», di violare i diritti umani e il diritto internazionale, di sacrificare «altre persone» in qualsiasi quantità, anche enorme, anche con armi di distruzione di massa: basta che Israele si senta «minacciato nella sua stessa esistenza». E ciò, soggettivamente.

Perchè una mente sana, ossia non fanaticamente ebraica, potrebbe obiettare come William Pfaff che lo Stato ebraico non è minacciato che ipoteticamente, come qualunque altro Stato, dall’esterno. E semmai, è minacciato da se stesso: dal suo terrore dell’assimilazione nella comune umanità che lo obbliga a separare «noi» e «gli altri», e nello stesso tempo dalla sua ingorda pretesa di occupare terre altrui con una popolazione non ebraica.

Ma è appunto questo assurdo - la pretesa di mantenere una condizione logicamente ed esistenzialmente impossibile - che Dror sente come «minaccia all’esistenza di Israele», il che è giusto. Ma per Dror e gli ebrei come lui, la minaccia sta nei palestinesi. Non per il fatto che i palestinesi resistano con violenza all’occupazione (non certo quelli di Cisgiordania, sottomessi e controllati, privi persino di quel fantasma di capacità offensiva che sono i razzi Kassam), no; i palestinesi, anche inoffensivi, sono una minaccia all’esistenza di Israele come Stato ebraico per il puro fatto di esistere. E’ quello che i sionisti, da Jabotinski a Ben Gurion a Sharon, hanno sempre pensato; ora, con Dror, lo dicono apertamente.

I palestinesi ci minacciano nella nostra esistenza, perchè esistono. La «soluzione» viene da sè.

M. Blondet

Why Vincent Bugliosi Wants to Prosecute George W. Bush for Murder


Former California prosecutor Vincent Bugliosi wants President Bush charged with murder.

Bugliosi – who in the early 1970s successfully prosecuted Charles Manson for the murder of Sharon Tate and six others – lays out his case against Bush in The Prosecution of George W. Bush for Murder (Perseus Books, 2008).

The book will hit book stores next week – Tuesday May 27, 2008.

“My motivation for writing this book is simple – to bring about justice,” Bugliosi says in a video posted on the book’s web site (prosecutionofbush.com).

“George Bush has gotten away with murder – thousands of murders,” Bugliosi says. “And no one is doing anything about it. The American people can’t let him do this.”

Bugliosi wants one or more of the fifty state attorneys general or one of the nation’s hundreds of district attorneys to step up and prosecute Bush for murder.

“I have set forth in my book the jurisdictional basis for the Attorney General in each of the fifty states – plus the hundreds upon hundreds of district attorneys in counties within the states – to prosecute George Bush for the murders of any soldier or soldiers from their state or county who were killed in Iraq fighting George Bush’s war,” Bugliosi says in the video on his web site.

“I don’t think it is too unreasonable to believe that at least one prosecutor out there in America – maybe many more – will be courageous enough to say – this is the United States of America. And in America no one is above the law. George Bush has gotten away with murder. No one is doing anything about it. And maybe this book will change that.”

Bugliosi argues that Bush misled the nation into a war that has killed more than 4,000 Americans.

At the center of Bugliosi’s indictment of Bush is a October 7, 2002 speech to the nation in which Bush claims that Saddam Hussein was a great danger to this nation either by attacking us with his weapons of mass destruction, or giving these weapons to some terrorist group.

“And he said – the attack could happen on any given day – meaning the threat was imminent,” Bugliosi says.

“The only problem for George Bush – and if he were prosecuted, there is no way he could get around this – is that on October 1, 2002, six days earlier, the CIA sent George Bush its 2002 National Intelligence Estimate, a classified top secret report. Page eight clearly and unequivocally says that Saddam Hussein was not an imminent threat to the security of this country. In fact, the report says that Hussein would only use whatever weapons of mass destruction he had against us if he feared that America was about to attack him.”

“We know that Bush was telling millions upon millions of unsuspecting Americans exactly the opposite of what his own CIA was telling him,” Bugliosi said. “We know that George Bush took this nation to war on a lie. Who is going to pay for all of this? Someone has to pay. And the person who has to pay obviously is directly responsible for all of the death horror and suffering. And that person is George W. Bush.”

“The majority of the American people probably are going to find it difficult to accept that the President of the United States, the most powerful man on earth, would engage in conduct that smacks of such great criminality. You just don’t expect something like this from an American president. However, I’m very confident that once they read the book, they will be overwhelmed by the evidence against Bush. They will be convinced that he is guilty of murder and should be prosecuted. In the book, I lay out the legal architecture for the case against Bush, all of the evidence of the guilt against Bush and the jurisdiction to prosecute him. I even set forth proposed cross-examination questions of him if he takes the witness stand at trial.”

As a state prosecutor in Los Angeles, Bugliosi prosecuted Charles Manson and members of his “family” for the 1969 murders of Sharon Tate and six others.

Bugliosi says he lost only one of the 106 felony cases he tried as a prosecutor. He says he won 21 out of 21 murder cases.

He is the author of Helter Skelter – the best-selling book on the Manson trial.
By CORPORATE CRIME REPORTER

Corporate Crime Reporter is published in Washington, D.C.

Bush sull'Iraq ha ingannato gli Usa


Quando i vari blogger portavano avanti articoli che affermavano che la guerra in Iraq era solo un pretesto, quell'informazione non valeva nulla. Adesso che tutti lo dicono, anche il vice di Bush, allora diventa materiale per un libro, forse per un best-seller. Ma come siamo messi con l'informazione? Chi giudica Chi?

WASHINGTON (Stati Uniti) - Le motivazioni per muovere guerra all'Iraq furono un colossale inganno ordito da Karl Rove, da Dick Cheney e dalla Cia con la compiacenza - o quantomeno il silenzio - di George W. Bush e Condoleezza Rice. Ad affermarlo è Scott McClellan, ex capo ufficio stampa della Casa Bianca, un uomo che per sei anni ha vissuto all'interno di quelli che oggi chiama «meccanismo di propaganda».

LE ACCUSE - Nel libro intitolato Cosa è successo: all'interno della Casa Bianca di Bush e della cultura washingtoniana dell'inganno, McClellan non risparmia nessuno: accusa Rove, l'ex stratega di Bush, di avergli mentito sulla vicenda della fuga di notizie dalla Cia; la Rice di essere sorda alle critiche e Cheney di essere «il mago» che manovra la politica da dietro le quinte senza lasciare tracce. L'ex portavoce della Casa Bianca non arriva fino ad accusare Bush di aver volutamente mentito sulle vere ragioni per invadere l'Iraq, ma afferma che lu e il suo staff oscurarono la verità e fecero in modo che «la crisi fosse gestita così da far apparire la guerra come l'unica opzione praticabile». Quella messa in piedi dalla Casa Bianca nell'estate del 2000, aggiunge McClellan, fu una «campagna di propaganda politica» mirata a «manipolare le fonti alle quali attinge l'opinione pubblica» e a «minimizzare le reali ragioni della guerra».


IL RIMPASTO E L'ADDIO - McClellan lasciò la Casa Bianca il 19 aprile del 2006 dopo che il nuovo capo di gabinetto Joshua Bolten, avviò un radicale rimpasto di cui fece le spese anche Karl Rove. «Ammiro ancora Bush» scrive McClellan nelle 341 pagine del libro, anticipato dal Washington Post, «ma lui e i suoi consiglieri hanno confuso la propaganda con l'onestà e il candore necessari a costruire e mantenere il supporto dell'opinione pubblica in tempo di guerra. Da questo punto di vista Bush è stato terribilmente malconsigliato, specie per quanto riguarda la sicurezza nazionale».

STAFF NEL MIRINO - L'ex capo ufficio stampa ha anche accusato lo staff della Casa Bianca di aver gestito in maniera disastrosa la comunicazione durante la devastazione portata dall'uragano Katrina nel 2005. «Per tutta la prima settimana non hanno fatto altro che negare» scrive McClellan, «così uno dei più gravi disastri della storia del nostro Paese è diventato il più grave disastro della presidenza Bush».

China's weakness the greater danger



China as an "emerging superpower" makes for a compelling story line in the media. It is reinforced by the propaganda image that the current Chinese leadership would like us to accept. But the reality is quite different.

Although recent events in Tibet and western China, and the central government's response, appear to be generating pro-government patriotic feelings, they dramatically display the practical limits of the government's power. Other sources of unhappiness with the regime, including income disparities and the inevitable collapse of unsustainable price controls on fuel and food, could breed both urban and rural discontent that has no ready outlet besides unlawful opposition to the government.

Meanwhile, the West, in its fixation on its own economic difficulties in comparison to the Chinese "juggernaut", is neglecting to prepare for equally likely "weak China" contingencies. Just as we failed to predict and prepare for the implosion of the Japanese economy and the collapse of the Soviet Union, we appear unready for a dramatic economic and political reversal in China that would be a defining event of the 21st century.

China is in every sense a world under construction, with the physical, social, economic, legal and institutional blueprints being drawn and revised daily as the construction proceeds. The depth and scale of the transformation taking place in every dimension of Chinese social, economic, and political life is difficult even for the most knowledgeable observers to comprehend. With luck, this great experiment can be one of the most successful developments in human history. If it fails, the consequences for China and for the rest of us could be tragic, and possibly catastrophic.

Wow! - and not wow!
As the US economy slips into recession, the American media are filled with impressive-sounding statistics about Chinese economic, social, and military progress. The implicit or explicit tag line is: "Wow!"

For example: Beijing has 3 million vehicles and is adding 1,000 cars a day to its already gridlocked streets - Wow! In fact, the Beijing metro area of 16,000 square kilometers, with a permanent population of almost 13 million (plus another 4 million "transient" residents), has about 3 million vehicles. The Los Angeles metro area, with a similar population but one-quarter the area, has over 7 million vehicles. Nationally, China has 22 vehicles per 1,000 people, while the United States has 764 vehicles per 1,000.

The Beijing gridlock reflects the serious lack of transportation infrastructure, not a large number of vehicles, and the three new subway lines opening this summer will hardly make a dent in this deficiency.

China is the world's third-largest economy and has been growing consistently at 10% per year for more than a decade - Wow! In fact, China's gross domestic product (GDP) of $3.8 trillion, for 1.5 billion people, is less than one-fourth the $13.2 trillion US economy, for 300 million people. The European Union has a GDP almost five times that of China's with one third the population.

Based on energy consumption and other indicators, China's longer-term growth rate is probably more like 6% per year, according to Massachusetts Institute of Technology economist Lester Thurow. Or, if environmental degradation is included in the calculations, China has essentially no net growth, according to World Bank Reports and statements the senior officials in the Chinese Ministry of Environment.

Even assuming that the claimed 10% rate could continue uninterrupted indefinitely from China's small economic base, the country would just catch up with the US in GDP in about 20 years - but not nearly approach the US in GDP per capita. The gap between the average Western citizen and the average Chinese citizen will not close for the indefinite future.

China's consumption of oil is responsible for about one-third of the increase in demand in recent years (and the country is also consuming enormous amounts of iron, aluminum, cement, and so forth) - Wow! In fact, China consumes about 9% of total global oil consumption, which compares with US consumption of about 25% of the global total and over 10 times the Chinese per capita consumption. Unquestionably, the increase in consumption of oil and other natural resources by China, India and other developing countries is raising demand more rapidly than supply, and probably more than the planet can deliver for long (even with more dramatic price increases). But the world's growing resource consumption would hardly be sustainable even without China's growing demand.

Of course, the American media coverage is not all pure "wow!" Longer articles often embed the dramatic statistics in discussions of China's fundamental problems, which are legion. The disparity in income distribution exceeds even that of the US, the government provides virtually nothing in the way of a social safety net, and most people have minimal access to health care. Its cities are choking on air pollution, and water is in short supply and unsafe to drink. But even the "balanced" articles often leave the impression that these problems are merely social welfare matters that do not fundamentally impinge on China's "superpower" status.

More scholarly works have also endorsed the "emerging superpower" image - perhaps in the hope that a catchy title will attract the necessary public attention to sell books and ideas. A valuable book of mostly economic analysis and statistics produced jointly by the Center for Strategic and International Studies and the Institute for International Economics, China: The Balance Sheet, carries a cover line, "What the WORLD needs to know now about the emerging SUPERPOWER." An article by G John Ikenberry in the January/February 2008 issue of Foreign Affairs describes China as "on the way to becoming a formidable global power". Even Sinologist Susan Shirk's generally very thoughtful book on China and American foreign policy, China - Fragile Superpower, assumes that the country is a superpower and must be dealt with accordingly.

Inherent weakness
It may not make such interesting reading to say that China is slowly emerging out of feudalism and desperately hopes to use the fruits of Western technology to pull its people away from the edge of starvation, at least for a few decades. And it is extraordinarily difficult to quantify the real economic limitations imposed by China's environmental and natural resource deficiencies.

But these concerns are rarely given serious consideration as real constraints on China's development. Equally important, the international policy consequences of a faltering China are not being seriously discussed or explored.

The reality is that the Chinese "communist" central government and Chinese economic, social, political and legal institutions are quite weak. China is ineffectually governed. It will be struggling for decades to get and stay beyond subsistence. It has built an export-dependent economy ill-suited to meeting its domestic needs, and it will shortly face insurmountable environmental and natural resource obstacles to its rapid growth.

The central government has succeeded in unleashing the entrepreneurial, profit-driven economic engine, but it is unable to apply any brakes - that is, to address effectively any of the adverse effects of the single-minded focus on profit. The leadership claims that it recognizes the corrosive economic and social consequences of the current situation and is taking remedial actions. Even if it were seriously committed to these policies as a high priority, the government lacks the mechanisms to rein in the runaway horse.

China has satisfactory national laws about minimum wages and hours, child labor, food and other product safety, worker safety, intellectual property and air and water pollution. But the central government has not effectively empowered judges and prosecutors to enforce these laws, because they are controlled by provincial and local party leaders. These officials, who often benefit personally or professionally from the success of local profit-making enterprises, are rarely inclined toward enforcement.

China's urban transformation is creating a need for a new government-managed social welfare system that disburses retirement, disability, unemployment and child welfare benefits - functions formerly handled by the now-diluted extended family. This traditional culture is rapidly collapsing in the newly mobile, urban society.

The supposedly all-powerful central government is unable even to end its substantial subsidies of gasoline, electricity and water consumption - for the same reasons the US government is unable to raise gasoline taxes or end the mortgage interest deduction. Both fear strong popular opposition. Meanwhile, the dramatic increase in wealth has created more opportunities and incentives for corruption. The high visibility of some of this corruption - poorly compensated expropriations of private property to help developers, for example - is creating an increasing public backlash.

The current Tibet conflict does not threaten the government domestically. But it shows how quickly events can get out of control in a globally linked media world and when there are no opportunities in China for democratic participation to absorb the energy of the dissatisfied. More threatening to the regime in this situation is public unhappiness with internal economic decisions. Though less publicized internationally, recent events such as the unauthorized rallies in Shanghai in opposition to a new rail line in a middle-class residential neighborhood, organized through Internet and cell-phone messaging, and the demand for public hearings about the PX chemical plant in Xiamen, show the risks of decision-making without mechanisms for public participation.

The popular "emerging superpower" picture in our media mostly takes at face value the central government's assertions about the success of its governance. The government claims primary credit for the "economic miracle" and the dramatic transformation of Beijing, Shanghai, and other major cities. It asserts that all of the country's environmental, social and economic problems are manageable, and that it controls everything that happens in China.

The government may indeed be able to lock up or kill off several thousand dissidents (a comparatively easy task logistically, though recent events in Tibet have shown that there is still a significant domestic and international cost). But that is a much easier task than designing and implementing necessary modern economic, regulatory, and social welfare institutions and programs in a society that has almost none. So far it has not demonstrated real success in those arenas.

China is big in almost every dimension, and its international influence has been increasing, as one would expect of a society comprising one-quarter of the world's people. But does that make it a "superpower"? Or even a "power"? What exactly is the "power" of 500 million near-subsistence farmers who mostly lack substantial electricity, safe drinking water and indoor plumbing, and whose education consists largely of the ability to write and read a few prescribed texts? How much "power" is gained by adding in another 500 million educated city-dwellers with Western consumer aspirations who may well be living in economically and ecologically unsustainable Potemkin Villages? Balanced against its very real difficulties, China's capabilities are certainly not as great as they are often portrayed.

Military ambitions?
China is expanding its military spending and technical capabilities, but it is hardly a global threat in any rational context. The Pentagon estimates 2006 Chinese military spending at less than $90 billion; most other estimates are lower. Compare that amount to the $440 billion fiscal year 2007 appropriation for US military spending, not counting $50 billion for Iraq and Afghanistan. The growth in the Chinese military budget more likely reflects the Communist Party's need to buy the army's loyalty, rather than any imperialist military ambitions.

Chinese civilian worker productivity is about 4% of American worker productivity, and a roughly similar productivity ratio probably applies to its military machine as well. Against the combined US, Japanese and Taiwanese military forces, any military venture would be nothing less than a catastrophe for China. This military balance against China severely limits any rational military ambitions. China's only active military focus grows out of its adamant opposition to Taiwan's independence, an issue that appears likely to recede as a result of this year's elections in Taiwan. China certainly wants enough military capability to make its threat of military action credible to Taiwan, the US and Japan. The Chinese tradition of military strategy is built around outwitting and outmaneuvering the enemy, not applying overwhelming brute force.

For that purpose, the appearance of strength is important, but the actual use of force would reflect a strategic failure. Worse, any serious, long-term military engagement could easily create just



the kind of domestic economic dislocations and shortages that, after the initial burst of patriotic enthusiasm, would feed social and political dissatisfaction, which the regime rightly fears most. The months-long adverse consequences of last winter's blizzard show the true vulnerability of China's economic structure.

Economic power?
China's economic "power" is significantly less than the often-quoted statistics suggest. US industrial imports from China amounted to less than 3% of the US GDP in 2006 (up from less than 0.5% of GDP in 1993). The standard statistics on US-China trade volume vastly overstate China's economic benefit. Only about one-third of the nominal value of China's exports reflects goods actually manufactured in China. China is still largely an assembler, and most of the components come from abroad. China's manufacturing is heavily dependent on imports of components, raw materials, energy supplies, intellectual property, and financial and other management skills, which all result in economic outflows.

Moreover, a significant part of China's current price competitiveness has grown out of its postponement of the costs of safe and sustainable management of its natural and human resources. Recent indications are that some of these postponed costs are coming due. The government is already spending billions of yuan (directly and by ordered closures) to dismantle environmentally unredeemable manufacturing facilities. More billions are being invested to divert water from agricultural uses to supply the growing cities of dry northern China.

Thus the much-discussed financial reserves China has accumulated are mostly offset by real-world social welfare and environmental debits to repair and maintain human and natural resources. And the value of China's international reserves, mostly invested in declining US dollar paper assets, depends almost entirely on the economic viability of the United States, the European Union, and Japan. China was apparently a significant loser in the US subprime mortgage collapse, though the actual amounts have not been revealed. This dependency deprives China of the kind of independent economic power of Saudi Arabia or Russia, which control substantial physical resources.

International political power is largely derived from the world's perception of a nation's independent military and economic resources, and its willingness to invest them - and risk them - in order to change the behavior of other nations. Thus China's international political influence depends in significant part on what the Chinese government says, and what we believe, about its capabilities and intentions. Though it would like the West to believe otherwise, China cannot afford to risk significant military or economic resources in international political competition.

The real threat
In light of these realities, the West is overly focused on the Chinese "emerging superpower" threat and giving far too little attention to the real risks and foreign policy challenges that would flow from a serious breakdown in Chinese economic, political, or social structures.

A crisis might be triggered by any number of factors. A dramatic slowdown in the Chinese or world economy could disrupt the lives of millions of factory workers. Serious rationing of water, food or energy, whether by dramatic price increases or some other mechanism, could be unacceptably painful for a large part of the population. The loss of individual savings from a stock market or banking collapse could fuel popular discontent among the new urban elite. Even with continuing economic progress, widening income disparities could generate increasingly serious opposition in rural areas. A widespread farmers' strike might cut off food to the urban centers, leaving them in a state of chaos.

Systemic crisis could then lead to an open challenge to the regime. Here are two scenarios to consider. In one, students, factory workers and peasants gather again in Tiananmen Square to protest against economic conditions and perceived political non-responsiveness. When urban professionals start to join them, the central government calls in the army. It begins a brutal campaign of violently repressing demonstrators, arresting domestic and foreign media representatives, and purging uncooperative members of the party and civilian government, entirely disregarding the legal system. The demonstrations do not stop, and various groups ask for outside help to protect foreign residents and foreign investment and to end the wholesale disregard of human rights. Overseas Chinese and major US banks and corporations with investments and supply lines at stake argue that the situation is too dangerous to ignore.

In the second scenario, the central government's inability to control the economy or cure the country's problems becomes increasingly obvious. The educated, urbanized residents of Shanghai and the urbanized areas around Hong Kong increase control over their regional governing systems, perhaps through more democratized party elections, and disregard Beijing's directives. Taiwan offers economic and technical assistance to these areas, with the aim of creating more of a "one China, many systems" environment.

In response, the Chinese military threatens to impose military rule on Shanghai and Hong Kong, and to recapture Taiwan. The new local leaders ask for help from Taiwan and other nations to avoid the bloodbath, economic disruption, danger to US and other foreign citizens, and destruction of foreign investment property that will inevitably result if no one comes to their aid.

Responding to Chinese instability
Some American hardliners may believe that the US should encourage crisis and regime collapse in China. However, nothing in Chinese history, or in the history of revolutions and coups almost anywhere, gives any reason to believe that a collapse or violent change in Chinese leadership would be followed by a more stable, more reliable, more democratic or more cooperative international actor than the current central government. The tragedies of the French revolution, the Russian revolution, the post-World War II coups in Eastern Europe and the Chinese Cultural Revolution are far better indicators of what might come next if faltering economic progress or other stresses of transformation become unmanageable.

In our globalized economic world, the West could not simply sit back and smile as China disintegrates. Chaos in China is far more threatening, economically, politically and militarily, to the United States and the world than China's current "peaceful rise". Both for China's sake and our own, we must help the Chinese succeed in their transition to a 21st-century economy and society.

Being better prepared for possible failures along the way is an essential component of planning for and realizing that goal. Western leadership needs to think now about how it would rank and balance various potentially conflicting objectives, including protecting diplomats and foreign citizens, salvaging Western investments, ensuring the stability of the global economy, protecting human rights, avoiding unpredictable military action and reaction, and maintaining civil relations with those who claim to be in power in Beijing.

The West needs to act immediately and more vigorously to help strengthen Chinese civil institutions, recognizing the continuing imperative of the Chinese government to show improvements in its domestic economic and social structures.

The 2007 Party Congress was filled with rhetoric about "democracy". But real democracy - the broad diffusion of power beyond the party and its attendant government bureaucracies, to independent legal institutions, media and non-governmental organizations - will only be implemented if it is seen as a means of promoting social harmony and strengthening the authority of national laws over local corruption and opportunism.

Arguments that China should expand individual human rights as an independent moral objective are unlikely to motivate the central government. Rather, the central government should be persuaded to decentralize power and create a diverse civil society to create the social resilience, adaptability and sense of participation that will enable it to survive through the coming storms. The current Tibet controversy, because it is perceived by most Chinese as an ungrateful challenge to territorial integrity, is only a shadow of what may lie ahead.

Finally, we must also prepare for the worst. First, our foreign policy and military planners must develop and publicly discuss contingency plans for the consequences of a dramatic setback in Chinese economic growth and resulting breakdowns in domestic order. Second, we need stronger mechanisms to avoid miscommunication of military movements, lest we lurch into a World War I-like disaster as hardline propaganda and sensationalist media lock both China and other governments into inflexible postures. Third, if the physical entry of national or multilateral military forces into any part of China is unthinkable under all circumstances, we must identify other steps that might be taken to minimize and mitigate the destruction of life, property, social order, and global economic activity.

What leverage, if any, can the outside world bring to bear on the central government or the military, without military intervention? Can the threat, or imposition, of economic sanctions, embargoes, blockades, or other tools have a significant impact in time to avoid disaster? Can the United Nations make any difference at all in this context? Timely, coordinated response by the outside world might make a difference; slow reactions and uncoordinated US, European Union, and Japanese positions will almost certainly accomplish nothing.

The Chinese propaganda machine is doing its best to make us (and the Chinese people) believe the government has everything under control and on track. We must not take its claims of economic and military strength at face value. We need a more realistic understanding and perspective on the nature and scope of China's growing capacity and hidden weaknesses, learning more about its limits as well as its strengths. And we must think seriously about how the West might proceed to address the global interest in conditions in China if a real breakdown occurs.

Samuel Bleicher is principal in his consulting firm, The Strategic Path LLC. From 2001 to 2007, he served as chief strategist for new initiatives in the Overseas Buildings Operations Bureau of the US State Department. From August through December 2007 he taught American law in Beijing to Chinese prosecutors, judges, lawyers and administrative officials in a joint Tsinghua University/Temple University LLM program funded primarily by the Chinese and US governments.

By Samuel A Bleicher
Bleicher@StrategicPathLLC.com

La svolta ecologista dei Rockefeller



Neva, pronipote del mitico John D., presenta una mozione agli azionisti della Corporation

«Exxon cambi rotta sull'ambiente»

L'appuntamento è per mercoledì prossimo a Dallas, dove si terrà l'annuale assemblea degli azionisti della multinazionale petrolifera più ricca del mondo che è anche l'unica a non fingere nemmeno d'interessarsi alla crisi ecologica in corso. Anzi, com'è noto, Exxon si batte da anni con ogni mezzo, legale e illegale, per annacquare gli studi sul cambiamento climatico e tenere lontana qualunque normativa che possa imporre dei limiti alle emissioni inquinanti.

Ora però qualcosa potrebbe cambiare: con una mossa senza precedenti gli eredi del fondatore hanno organizzato una cordata per costringere l'azienda a impegnarsi contro dl'effetto serra e nelle energie rinnovabili. L'insurrezione, guidata da Neva Goodwin Rockefeller, pronipote del fondatore e stimata economista, vuole la testa dell'attuale presidente Rex Tillerton e una totale inversione di rotta: a fronte degli enormi profitti che Exxon sta intascando grazie all'aumento del prezzo del petrolio, secondo Neva la corporation deve aiutare i poveri, cercare fonti alternative di energia e tutelare l'ambiente anche - o soprattutto - per non restare tagliata fuori dal business ecologico, l'unico che sembra avere un futuro.

Quella dei Rockefeller è una saga che va avanti da un secolo e mezzo fornendo materiale per film, romanzi e perfino fumetti, come si evince dal successo di un certo John D. Rockerduck, nemico storico di Paperon De Paperoni che deve il suo nome a John D. (sta per Davison) Rockefeller mitico fondatore della Standard Oil, praticamente la madre di tutte le corporation petrolifere e non. Tanto per far capire quanto il fondatore abbia influenzato l'immaginario degli americani, basti pensare che quando Disney lanciò il nuovo personaggio la Standard Oil aveva chiuso i battenti già da cinquant'anni, e non certo perché gli affari andavano male.
Al contrario, quando la Corte Suprema degli Stati Uniti ordinò ai dirigenti di smembrare la compagnia, nel 1911, Rockefeller controllava il 64% del mercato: un monopolio decisamente illegale secondo le leggi statunitensi. Dalla Standard Oil nacquero ben 34 compagnie, alcune ancora vive e vegete come Continental Oil (ribattezzata Conoco), Standard of Indiana (poi Amoco), Standard of California (poi Chevron), Standard of New York poi Mobil) e infine Standard of New Jersey, (ribattezzata Esso e poi Exxon). Quest'ultima, certamente la più potente, nel 2007 ha realizzato profitti per 40 miliardi di dollari.
Sono decenni che i discendenti del fondatore non mettono bocca nelle decisioni del management e tengono lontane dai riflettori le loro proverbiali liti.

Ora però, sull'onda dell'impegno di Neva, le nuove leve hanno deciso di farsi sentire e accusano l'attuale gestione di ignorare la volontà degli azionisti e di non pensare minimamente al futuro del pianeta. Mercoledì a Dallas i "cugini" - come sono chiamati dalla stampa - presenteranno cinque mozioni per chiedere il totale cambiamento della politica aziendale e le sosterranno anche contro il parere del patriarca David (92 anni), ex presidente della Chase Manhattan e fiero oppositore dei capitalisti «attivisti» che considera semplicemente dei pazzi. Sul fronte opposto c'è Peter M. O'Neil, uno dei cugini, che ha irritato particolarmente gli anziani rompendo l'antica vocazione familiare all'omertà e prestandosi a fare da testimonial della fronda sui media. Una battaglia campale, dunque, che tiene l'industria e la finanza statunitensi con il fiato sospeso anche perché i Rockefeller sono sempre stati notoriamente molto litigiosi ed è già una notizia il fatto che abbiano fatto fronte comune contro quelle che considerano «la cecità e l'ingordigia della Exxon».

Per quanto la battaglia sembri impari, visto che attualmente la famiglia detiene una percentuale molto piccola di quote azionarie, i Rockefeller hanno sempre avuto grandi ambizioni. Non a caso Peter Johnson, lo storico della dinastia, sospetta che il loro obiettivo sia di riformare non solo la Exxon ma l'intera industria petrolifera. «E' gente con un impegno ambientale e sociale preciso» ha spiegato al Corriere della Sera «Mirano alla riduzione delle emissioni di gas nel mondo e al sostegno delle comunità meno abbienti». Dalla loro i cugini hanno il sostegno di un'opinione pubblica sempre più preoccupata dagli effetti del riscaldamento globale e sempre più arrabbiata per gli aumenti del prezzo del greggio, che si traducono in profitti da record per le compagnie.

Naturalmente Rex Tillerton non ha nessuna intenzione di cedere: «Siamo un'azienda petrolifera e petrolchimica e tale resteremo. Il nostro bilancio dimostra che abbiamo ragione». Le trattative con i rivoltosi - in corso dal 2004 - sono arrivate a un punto morto quando il management ha rifiutato ogni proposta di compromesso. Si è arrivati così alle quattro mozioni: tre che riguardano gli investimenti nell'energia rinnovabile - che altre aziende, come Chevron o BP, fanno massicciamente - e una quarta ben più radicale per ottenere la nomina di un presidente indipendente. Secondo Tillerton la rivoluzione dei Rockefeller è destinata a fallire «perché non hanno nemmeno l'1% delle azioni». Ma Peter O' Neill ribatte che il pacchetto azionario della dinastia è «difficile a calcolarsi perché messo in vari trust» ma è certamente superiore alla quota indicata e che comunque molti azionisti si sono schierati con i cugini proprio perché infastiditi dalla totale cecità degli attuali dirigenti sulle questioni ambientali. Secondo il Wall Street Journal, la fronda ambientalista avrebbe il consenso del 40% degli azionisti. Anche perchè, se così non fosse, difficilmente i rivoltosi sarebbero usciti allo scoperto.
di Sabina Morandi

28.5.08

Quando la libertà di parola non è così libera


Parlare liberamente non è così privo di conseguenze. Negli Stati Uniti, per esempio, criticare Israele equivale ad un'eresia. Jimmy Carter, già Presidente degli Stati Uniti, dopo la pubblicazione l'anno scorso del suo libro 'Palestina: Pace, non Apartheid' nel quale condannava le politiche isolazioniste israeliane nei territori palestinesi occupati, ha avvertito una forte reazione pubblica avversa. Come conseguenza, senza alcun fondamento, Carter fu marchiato da molti nella stampa americana come propagandista anti-semita di-parte.

Analogamente, Stephen Walt - Professore alla Harvard - e John Mearsheimer - all'Università di Chicago - sono stati additati per uno scritto che metteva in discussione il potere della lobby israeliana ed i suoi effetti negativi sulla politica americana.

Da ultimo, Norman Finkelstein, stimato Professore alla DePaul University ed autore del bestseller 'L'Industria dell'Olocausto', è stato testimone di una campagna in stile maccartista montata contro di lui al ricevimento dell'incarico. Finkelstein, figlio di sopravvissuti all'olocausto, ha sempre parlato contro gli abusi dei diritti umani commessi da Israele e contro gli apologeti pro-Israele, tipo il Professor di Harvard, Alan Dershowitz. Presumibilmente, è stato quest'ultimo a montare la campagna anti-incarico contro Finkelstein, al quale alla fine è stato negato l'incarico ed ha perso la cattedra alla DePaul.

Gli attacchi contro Carter, Finkelstein, Walt e Mearsheimer sono un piccolo gruppo di esempi ben noti sulle conseguenze alle quali scrittori ed intellettuali vanno incontro quando oltrepassano la linea e criticano Israele. La condanna che ricevono, poi, scrittori ed intellettuali di origine araba è invariabilmente più alta di quella ricevuta dai Giudei responsabili, dai già presidenti e dagli accademici rispettati.

Così, molto scrittori spesso seguono la corrente e la loro auto-censura si manifesta nell' "abbassare i toni del messaggio" sia compiacendo l'editore che i critici, essenzialmente conformandosi alla realtà di un cosiddetto pragmatismo. Ma tale "pragmatismo" è un eufemismo al posto di "accettazione" di uno status quo repressivo ed è analogo a quel "necessario" modo di pensare "pratico" che aveva zittito una moltitudine di commentatori durante gli anni di Oslo - il presunto periodo della pace. Logicamente, l'effetto delle taciute sofferenze dei Palestinesi fu un aumento dell'espansione degli insediamenti dei coloni, della confisca di territori, del numero dei posti di controllo e degli attacchi, così come del fallimento di Camp David, nel 2000.

Schivare argomenti percepiti come controversi può aiutare a salvare una carriera ben allineata, ma lo scopo di un analista politico non dovrebbe essere produrre dei lavori di fantasia. Durante la corsa alla guerra in Iraq, la maggior parte degli americani non era disponibile a sentire critiche alla politica americana, ciò soprattutto a causa della complicità dei mezzi di comunicazione ufficiali a sostegno della guerra; ma le critiche erano assolutamente appropriate dato l'andamento dei fatti e gli americani oggi ne avrebbero beneficiato.

Un uomo che è riuscito a combinare con maestria i propri principi, l'attivismo e gli aspetti umani, è stato il noto educatore e commentatore Edward Said. Said è visto senza dubbio come la quintessenza del radicalismo nell'intelligentia e nel campo dell'analisi del Medio-oriente. Nondimeno, le sue posizioni erano radicali se confrontate con la "comprensione convenzionale" : era infatti un fautore della soluzione ad uno-stato, un critico solitario del governo israeliano ed un ardente sostenitore dell'apparentemente controverso diritto di ritorno. Said è stato oggetto di critiche durante tutta la sua carriera ed ha sostenuto pesanti attacchi dai suoi detrattori, eppure il suo modo di fare comprensibile e le sue argomentazioni motivate, gli hanno fatto conservare un ruolo rilevante.

Purtroppo, questa relativa accettazione a favore di Said è l'eccezione e non la regola. Negli anni recenti c'è stato un aumento dell'attenzione per un preteso dialogo pragmatico. Nei fatti, questa attenzione al pensiero cosiddetto razionale ed equilibrato è risultata essere poco di più di un mezzo subdolo per fare pressioni sugli oppressi per accettare gli oppressori.

I più grandi leaders degli ultimi cento anni, non hanno evitato le contrapposizioni, sono rimasti sulle loro posizioni ed hanno visto le loro intuizioni diventare realtà; che si trattasse di Martin Luther King o Nelson Mandela o del Mahatma Gandhi. Ma non si può ignorare che anche personalità di spicco sono state punite per aver "oltrepassato" i confini ritenuti leciti, segnatamente Martin Luther King, che fu criticato per aver parlato contro la guerra in Vietnam, contro l'imperialismo e contro le ingiustizie sociali che infestano gli Stati Uniti.

Questa settimana, i Palestinesi negli Stati Uniti hanno commemorato i 60 anni del loro confinamento. Eppure, in base alla visione dei pragmatisti, la lente attraverso la quale il popolo palestinese dovrebbe osservare le cose dovrebbe far vedere loro che un popolo depredato è la vittima necessaria perchè prenda forma uno stato di diritto. Sfortunatamente, folle di scrittori e commentatori si accodano su questa linea per paura di perdere lo stipendio, in cambio di case più belle e di una vita più lussuosa, o per una combinazione di tali aspetti. Questo è il libero arbitrio. Parlare liberamente non è privo di conseguenze, eppure l'unica conseguenza che uno scrittore dovrebbe temere è la perdita della pace della propria mente.

Remi Kanazi

Child abuse by aidworkers

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Politica, Camorra e Fantasia: le nostre Specialità


I carabinieri del NOE hanno eseguito il 27 maggio 25 ordinanze di custodia cautelare ai domiciliari nei confronti di dipendenti e funzionari del Commissariato ai rifiuti della regione Campania. I reati contestati sarebbero traffico illecito di rifiuti, falso ideologico e truffa ai danni dello Stato e l’indagine nata da un’intercettazione avrebbe come oggetto il trattamento improprio delle ecoballe frantumate e sversate in discarica.

Il Prefetto di Napoli Alessandro Pansa ha ricevuto un avviso di garanzia concernente un atto da lui firmato, riguardante alcune prescrizioni alle quali avrebbe dovuto attenersi Fibe s.p.a. La società Fibe del gruppo Impregilo che gestiva l’intero ciclo dei rifiuti in Campania è attualmente sotto inchiesta insieme al presidente della Regione Antonio Bassolino. Michele Greco, attuale dirigente della Regione Campania e precedentemente alla Protezione civile, risulta fra i destinatari delle ordinanze di custodia cautelare, così come resterà “confinata” ai domiciliari Marta De Gennaro, già vice del sottosegretario Guido Bertolaso e responsabile del settore sanità della Protezione civile...

La nuova inchiesta culminata con le ordinanze del 27 maggio, portata avanti dai PM Paolo Sirleo e Giuseppe Loviello che in precedenza avevano già rinviato a giudizio i vertici della società Impregilo e lo stesso presidente Bassolino, mette in luce in maniera impietosa le profonde connivenze che intercorrono fra quella multinazionale del malaffare che è la camorra, molti rappresentanti della classe politica campana e delle istituzioni, unitamente ad elementi di spicco dell’imprenditoria nostrana. Non è facile comprendere (e forse non lo sarà mai) se sia stata la camorra a gestire la politica, le istituzioni e le società private, oppure viceversa sia stato il “carrozzone istituzionale” a gestire la camorra, ma dovrebbe essere ormai chiaro a tutti come l’emergenza dei rifiuti di Napoli sia stata ingenerata dall’operato di questo sodalizio criminale che proprio all’interno dell’emergenza ha costruito e continua a costruire profitti miliardari sulle spalle di tutti i cittadini italiani e in particolar modo di quelli campani che oltre a pagare il conto economico come tutti gli altri, hanno perso il diritto alla salute come le esperienze di chi vive nel “triangolo della morte” stanno tristemente a dimostrare.

Il parlamentare Italo Bocchino, capogruppo vicario del Pdl alla Camera, sembra invece vivere in un microcosmo costruito ad hoc dove le inchieste dei magistrati restano relegate nel novero della fantasia e la camorra, quella vera, è costituita dai cittadini napoletani che protestano, non perché si rifiutino di accettare di buon grado un futuro di tumori per sé stessi e per i loro figli, ma semplicemente in quanto “pagati” per farlo dalla camorra stessa.
Bocchino in un’intervista resa al Giornale, a metà fra il delirio onirico e l’esercizio della più becera disinformazione, rende noto perfino il “tariffario camorrista” oltretutto superscontato dal momento che a suo dire basterebbero 20 euro per far bruciare un cassonetto, 50 euro per costituire un blocco stradale e 100 euro per un’intera giornata di protesta.

Non sappiamo quanti euro siano stati necessari per indurre il deputato Bocchino a gettare discredito sulle spalle dei cittadini napoletani che protestano, anche se probabilmente si è trattato di un conto abbastanza salato, ma siamo certi che questo fulgido esempio di uomo politico nostrano non si è mai avventurato fra le fila dei contestatori di Napoli per cercare la conferma delle sue parole. Avrebbe trovato uomini e donne che stanno difendendo con i denti il loro diritto ad avere un futuro e sono costretti a combattere “gratis” ogni giorno, non solo contro la camorra ma anche contro beceri politicanti senza arte né parte che ne sostengono l’operato dispensando a piene mani la disinformazione.
Marco Cedolin

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RIFIUTI: PM, COLOSSALE OPERA INQUINAMENTO DEL TERRITORIO
(ANSA) - NAPOLI, 27 MAG - Una "colossale opera di inquinamento del territorio, posta in essere anche grazie a connivenze presenti ai più alti livelli e perseguita anche confidando nella possibilità di nascondere, proprio sotto le tonnellate di quei rifiuti che si dovrebbero smaltire correttamente, la pessima gestione degli stessi". Così i pm della procura di Napoli Giuseppe Noviello e Paolo Sirleo descrivono, nell'ordinanza firmata dal gip Rosanna Saraceno, lo scenario dei presunti illeciti alla base dell'operazione "Rompiballé. Secondo i magistrati, per quanto riguarda i soggetti privati coinvolti nell'inchiesta "le vicende dimostrano la persistenza di un modello di gestione piegato esclusivamente ad interessi economici e quindi incline, anzi aduso a violare qualsiasi interesse collettivo" compresi "quelli della salute e dell'ambiente". Le responsabilità dei soggetti pubblici riguardano invece "l'assoluta lontananza dell'anelito, o quantomeno, dal 'mero' dovere di garantire il rispetto della legge e, attraverso questa, la tutela degli interessi pubblici sottesi, in favore di una attività preordinata solo a garantire l'apparenza della 'propria efficienza ed efficacia di funzionari addetti''.

RIFIUTI: PM,GRAVISSIMI DANNI AMBIENTALI ED A SALUTE PUBBLICA
(ANSA) - NAPOLI, 27 MAG - Le irregolarità nella gestione dei rifiuti, al centro della nuova inchiesta della procura di Napoli, hanno prodotto - secondo gli inquirenti - "gravissimi risvolti sia ambientali che in danno della salute pubblica". E' stato accertato, ad esempio, che nelle discariche di Villaricca (Napoli) e di Lo Uttaro (Caserta) sono stati smaltiti rifiuti diversi da quelli per i quali gli impianti erano stati progettati e autorizzati. E in questi conferimenti, "nella consapevolezza piena" di alcuni funzionari del commissariato così come di esponenti e collaboratori delle società di gestione Fibe e Fisia, "non sono mancati neppure rifiuti pericolosi". (ANSA).

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I 25 destinatari dei provvedimenti di arresto:

- Marta Di Gennaro, responsabile del settore sanitario della Protezione civile, in passato il vice di Bertolaso all'epoca in cui era stato commissario straordinario per l'emergenza rifiuti
- Lorenzo Bragantini, direttore tecnico Ecolog, l'azienda che organizza il trasporto dei rifiuti in treno verso la Germania
- Roberto Cetera, amministratore delegato Ecolog
- Massimo Malvagna, amministratore delegato Fibe spa
- Andrea Orazio Monaco, capo impianto Cdr, combustibile derivato da rifiuti, presso l'impianto Caivano
- Sergio Asprone, responsabile gestione impianti Fibe
- Elpidio Angelino, capo impianto Cdr Giugliano (Napoli)
- Silvio Astronomo, capo impianto Cdr Casalduni (Benevento)
- Pasquale Moschella, capo impianto Cdr Santa Maria Capua a Vetere (Caserta)
- Giuseppina Marra, funzionario Provincia di Caserta
- Alessandro Di Giacomo, capo impianto Cdr di Pianodardine (Avellino)
- Ernesto Picarone, responsabile ambiente ingegneria di Fibe e Fisia-Italimpianti
- Domenico Ruggiero, capo impianto Cdr di Battipaglia (Salerno)
- Giovanni De Laurentiis, responsabile operatore Fisia-Italimpianti
- Angelo Pelliccia, dirigente Fibe e Fibe Campania
- Leonello Serva, ex Commissariato, oggi dipendente dell'Apat, agenzia per la protezione dell'ambiente
- Filippo Rallo, responsabile per i Cdr Campania della Fisia
- Massimo Cortese, responsabile gestione dei Cdr campani
- Giuseppe Sorace
- Michele Greco, dirigente della Regione Campania, già dipendente della Protezione civile.

27.5.08

U.S. Fourth Fleet in Venezuelan Waters




With U.S. saber rattling towards Venezuela now at its height, the Pentagon has decided to reactivate the Navy’s fourth fleet in the Caribbean, Central and South America.

It’s a bold move, and has already stirred controversy within the wider region.

The fleet, which will start patrolling in July, will be based at the Mayport Naval Station in Jacksonville, Florida and will answer to the U.S. Southern Command in Miami. Rear Admiral Joseph Keran, current commander of the Naval Special Warfare Command, will oversee operations. About 11 vessels are currently under the Southern Command, a number that could increase in future. The Navy plans to assign a nuclear-powered air craft carrier, USS George Washington, to the force.

It’s difficult to see how the revival of the Fourth Fleet is warranted at the present time. The move has only served to further antagonize Venezuelan President Hugo Chávez, already rattled by a U.S. navy plane’s violation of Venezuelan airspace over the weekend. In the long-term, the Pentagon’s saber rattling may encourage South American militaries to assert great independence from Washington, a trend which is already well under way as I discuss in my new book, Revolution! South America and the Rise of the New Left (Palgrave-Macmillan).

Reacting angrily to the Navy’s announcement, Chávez said: ``They don't scare us in the least.'' Chávez remarked that ``along with Brazil we're studying the creation of a South American Defense Council'' which would defend South America from foreign intervention. “If a North Atlantic Treaty Organization (NATO) exists,” the Venezuelan leader postulated, “why can’t a SATO exist, a South Atlantic Treaty Organization?"

Though the resuscitation of the Fourth Fleet has led many to believe that the U.S. is pursuing a course of gunboat diplomacy in the region, there was a time when the force arguably served a real need. What is the history of the Fourth Fleet in Venezuelan waters?



Venezuela in World War II

On the eve of the Second World War, Venezuela was the world’s leading oil exporter and during the conflict the oil rich Maracaibo fields, located in the westernmost Venezuelan state of Zulia, were considered a crucial resource for both the axis and allied powers.

British and American oil subsidiaries of Royal Dutch Shell, Standard Oil and Gulf had in fact long operated in the Maracaibo Basin prior to the outbreak of European hostilities. Transportation of crude from Jersey Standard’s producing fields in Lake Maracaibo region was carried out through use of specially constructed shallow draft tankers. A refinery owned by Royal Dutch Shell located on the island of Aruba, which processed Maracaibo crude, was strategically important as it supplied products not only to Britain but also to France.

In 1940, Britain received fully 40 percent of her total oil imports from Venezuela, and during the first years of the war that total jumped to as high as 80 percent. Venezuelan oil also represented a vital commodity for the Nazis and the ability of the German state to wage war in Europe. As late as 1938, oil produced from Aruba, Curacao and Venezuela accounted for 44 percent of German oil imports. Germany did not buy oil directly from Venezuela but from U.S. and British-Dutch oil companies which shipped Venezuelan crude to refineries in Aruba and Curacao and then sold the final product in Europe. Venezuelan-German trade remained at normal levels but ended abruptly in September 1939 with the beginning of the British naval blockade of Germany.

By 1940, with Britain increasingly isolated as the result of German attack and prior to the entrance of the U.S. into the war, Venezuelan sentiment was bitterly anti-German. Meanwhile Venezuela moved into the U.S. orbit and became a chief recipient of American economic aid. U.S. military officials preferred that Venezuela publicly stay neutral in an effort to preempt any German moves to shell Venezuela’s coast.

Venezuelan neutrality however was a mere legal fiction: in reality, the South American nation had granted U.S. ships and airplanes special access to ports and airstrips. Two days after Japan attacked Pearl Harbor, Venezuela declared its solidarity with the United States and on December 31, 1941 the Andean nation severed relations with the Axis powers.



Operation “Roll of Drums”

It wasn’t long before the Venezuelan government’s decision to sell oil to the allies resulted in Nazi counter measures. On December 12, 1941 Hitler met with his naval advisers and approved PAUKENSCHLAG or “ROLL OF DRUMS” a U-boat operation in Western Atlantic/Caribbean waters. In February, 1942 German submarines plied the Caribbean, sinking 25 tankers in one month.

The Nazis were chiefly concerned with the Dutch islands of Curacao and Aruba, Dutch colonies where U.S. forces had set up defensive fortifications in order to protect refineries processing Venezuelan crude from Maracaibo (with an estimated crude capacity of 480,000 barrels a day, the Aruba refinery, owned by Standard Oil of New Jersey, and the Curacao refinery, owned by Royal Dutch Shell, outranked Abadan in Iran with 250,000 barrels; the Baku complex in the U.S.S.R. with about 230,000 barrels; and the largest plants in the United States at Baytown, Port Arthur, Bayonne, Baton Rouge, and Whiting with over 100,000 barrels each).

On 15 February 1942, a convoy of oil tankers and ships left the Maracaibo Bar. The first ships in line were the ‘Monagas,’ of the Mene Grande Oil Company, followed by the ‘Tia Juana’ and ‘Pedernales’ both belonging to the Lago Petroleum Corporation. These tankers were followed by the ‘Rafaela’ belonging to Shell, and the ‘San Nicolas’and ‘Orangestad,’ belonging to Lago Oil and Transport Co, based in Aruba. A number of other tankers joined the column.

German U-Boat Attack and Creation of the U.S. Fourth Fleet

Suddenly a German U-boat torpedoed the ‘Monagas’ which sank immediately. The tankers ‘Tia Juana,’ ‘Pedernales,’ ‘Rafaela,’ ‘San Nicolas,’ and ‘Orangestad’ were also hit and sustained casualties. On the same day, the oil refinery on Aruba was attacked by German submarine shellfire. The political fallout from the attack was predictable: soon, angry street protesters hit the streets of Caracas, denouncing German aggression.

In response to stepped up German escalation in the Caribbean, the U.S. Navy created the Fourth Fleet to hunt submarines in the South Atlantic. The U.S. moves came none too soon: as the naval war raged in the Caribbean, Venezuela suffered tremendous economic losses. As a result of the lost tankers, production in the Lake Maracaibo Basin had to be cut back by nearly 100,000 tons of crude daily. By July 1942 the situation was still dire, with tankers operating at only one-third their average capacity of 30,000 barrels.

German attacks on the Aruba refinery marked the beginning of the Battle of the Caribbean. It wasn’t until August, 1943 that the Fourth Fleet was able to turn the tables on the submarine menace in Venezuelan waters. In 1950, with German U-boats now long gone, the U.S. Navy disbanded the fleet.

Reviving the Fourth Fleet

The Navy claims that it needs to resuscitate the Fourth Fleet now to combat terrorism, to keep the economic sea lanes of communication free and open, to counter illicit trafficking and to provide humanitarian assistance and disaster relief.

However, the move comes at a particularly sensitive moment within the region. U.S. ally Colombia launched a deadly raid across the Ecuadoran border in March, killing 16 members of the FARC guerilla insurgency including the organization’s number two, Raúl Reyes. Last weekend, Chávez accused Colombia of launching a cross-border incursion, while the Pentagon routinely lambastes Venezuela for its arms buildup including acquisition of high performance fighter aircraft, attack helicopters and diesel submarines.

Unlike the Second World War, when many South Americans welcomed the Fourth Fleet in Caribbean waters, some view the current U.S. naval presence as a veiled threat directed at the region’s new Pink Tide countries. In an interview with Cuban television, Bolivian President Evo Morales remarked that the U.S. naval force constituted "the Fourth Fleet of intervention."

Cuba’s former leader Fidel Castro has asked why the U.S. has sought to revive the Fourth Fleet at this precise moment. Writing in the Cuban newspaper Granma, Castro suggested that the move constituted a return to U.S. gunboat diplomacy. Castro, whose island nation confronted a U.S. naval blockade during the Cuban missile crisis of 1962, remarked "The aircraft carriers and nuclear bombs that threaten our countries are used to sow terror and death, but not to combat terrorism and illegal activities.”

Nikolas Kozloff is the author of Revolution! South America and the Rise of the New Left (Palgrave-Macmillan)