11.10.09

Competere con tutti lascia soli


Dietro ai tanti malesseri di oggi; dietro alle ragazzette vittime o delinquenti date in forte crescita dai servizi sociali, ai padri che abbandonano o vengono abbandonati, alle madri prese da raptus omicidi; dietro a gruppi sociali scollati tra loro e preda dell’odio reciproco; dietro alle depressioni coperte dalle droghe, sta una sola parola, che descrive una condizione precisa e concreta: solitudine. Quella di chi è in famiglia, ma non sente su di sé uno sguardo che sia attento e amoroso.
Ma anche la solitudine di chi abita un territorio dove i legami sociali si sono allentati, e la gente non ti guarda, non ti vede se non per misurare il tuo successo sociale, la tua capacità di spesa.
Infine la solitudine di chi non sente più la solidarietà e l’affetto dei pari, la compagnia di quelli che fanno il tuo stesso lavoro, sui campi, in azienda, o nelle professioni e nei servizi, perché questa vicinanza è stata sopraffatta dalla competizione, dal lasciarsi dietro il pari grado per avvicinarsi a chi ha uno stato superiore, e dall’ansiosa presa di distanza da chi rimane indietro.

Queste dinamiche, lo sappiamo bene, sono sempre esistite, e sono legate in parte all’istinto di sopravvivenza, in parte a quella che Nietzsche ha chiamato «volontà di potenza». Quella spinta naturale per la quale un ciuffo d’erba tende ad allargarsi occupando lo spazio dei fili vicini.
Tuttavia nella storia e nell’indole umana è presente una forza particolare, che non ha la stessa evidenza nel mondo puramente naturale: quella dell’amore. È solo l’amore, quello cui si riferivano i fondatori della psicoanalisi col nome di Eros, a contrastare il vissuto inappagato e inquieto della solitudine (quella cui si ribella anche il primo uomo, Adamo, chiedendo al Signore una compagnia, uno sguardo, una voce).
Fu l’amore, oltre che la ricerca di alleanza, ad ispirare lungo la storia umana la solidarietà, il rispecchiarsi nell’altro, l’appartenenza. Sentimento complesso, l’appartenere ad altri, ad una patria, una classe, una comunità, una professione, arte o mestiere. Tuttavia è proprio lì che nasce l’identità, che non si costituisce certamente solo con quattro dati anagrafici. Ed è proprio l’identità, che rende meno forte, o più accettabile, il morso della solitudine. Come raccontano tante poesie, o lettere di emigranti, anche italiani: non sei veramente solo quando hai una Patria, una terra di origine, un popolo cui appartieni.
La famiglia, lo sguardo attento e amoroso della donna, dell’uomo, dei figli, è l’ultimo, importantissimo tratto di questo filo affettivo che ci lega al resto dell’umanità, indebolendo la solitudine e le sue patologie. Così, almeno è stato, con alterne vicende, nel corso del tempo.
Nell’epoca in cui viviamo la competizione economica ha però assunto un’importanza particolarmente vistosa, assicurando contemporaneamente un grande sviluppo della ricchezza (non altrettanto, pare, della felicità). La spinta a prevalere, a vincere e distaccarsi dall’altro ha così indebolito quella a legarsi, a cercare la solidarietà, l’essere insieme, l’amore appunto. L’interesse alla contrapposizione delle classi ha prevalso su quello della solidarietà tra tutto il popolo, quello della competizione tra i generi ha prevalso sull’amore tra uomo e donna, quello dei singoli territori su quello del benessere di tutta una Nazione.
Questa competizione universale non poteva restare esterna alla famiglia, oggi teatro di conflitti plurimi: padre-madre, genitori-figli, e quindi di nuove, profonde solitudini. Che diventano rapidamente terreno di crescita di ogni malessere e devianza.

di Claudio Risé

7.10.09

Sta per arrivare la morte del dollaro




Quasi a simboleggiare il nuovo ordine mondiale, gli Stati arabi hanno avviato trattative segrete con Cina, Russia e Francia per smettere di usare la valuta americana per le transazioni petrolifere.

Mettendo in atto la piu’ radicale trasformazione finanziaria della recente storia del Medio Oriente gli Stati arabi stanno pensando – insieme a Cina, Russia, Giappone e Francia – di abbandonare il dollaro come valuta per il pagamento del petrolio adottando al suo posto un paniere di valute tra cui lo yen giapponese, lo yuan cinese, l’euro, l’oro e una nuova moneta unica prevista per i Paesi aderenti al Consiglio per la cooperazione del Golfo, tra cui Arabia Saudita, Abu Dhabi, Kuwait e Qatar.



Incontri segreti hanno gia’ avuto luogo tra i ministri delle finanze e i governatori delle banche centrali della Russia, della Cina, del Giappone e del Brasile per mettere a punto il progetto che avra’ come conseguenza il fatto che il prezzo del greggio non sara’ piu’ espresso in dollari.

Il progetto, confermato al nostro giornale da fonti bancarie arabe dei Paesi del Golfo Persico e cinesi di Hong Kong, potrebbe contribuire a spiegare l’improvviso rincaro del prezzo dell’oro, ma preannuncia anche nei prossimi nove anni un esodo senza precedenti dai mercati del dollaro.

Gli americani, che sono al corrente degli incontri – pur non conoscendone i dettagli – sono certi di poter sventare questo intrigo internazionale di cui fanno parte leali alleati come il Giappone e i Paesi del Golfo. Sullo sfondo di questi incontri valutari, Sun Bigan, ex inviato speciale della Cina in Medio Oriente, ha sottolineato il rischio di approfondire le divisioni tra Cina e Stati Uniti in ordine alla loro influenza politica e petrolifera in Medio Oriente. “Le dispute e gli scontri bilaterali sono inevitabili”, ha detto all’Africa and Asia Review. “Non possiamo abbassare la guardia in merito all’ostilita’ che fronteggiamo in Medio Oriente sugli interessi energetici e la sicurezza”.

Questa frase ha tutta l’aria di una previsione pericolosa su una futura guerra economica tra Stati Uniti e Cina per il petrolio mediorientale – con il pericolo di trasformare i conflitti della regione in una lotta di supremazia delle grandi potenze. L’incremento della domanda di petrolio e’ piu’ marcato in Cina che negli Stati Uniti in quanto la crescita cinese e’ meno efficiente sotto il profilo energetico. Abbandonando il dollaro i pagamenti, stando a fonti bancarie cinesi, potrebbero essere effettuati in via transitoria in oro. Una indicazione della gigantesca quantita’ di denaro di cui si parla puo’ essere desunta dalla ricchezza di Abu Dhabi, Arabia Saudita, Kuwait e Qatar che insieme hanno, stando alle stime, riserve in dollari per 2.100 miliardi.

Il declino della potenza economica americana strettamente connesso all’attuale recessione globale e’ stato riconosciuto dal presidente della Banca Mondiale Robert Zoellick. “Una delle conseguenze di questa crisi potrebbe essere l’accettazione del fatto che sono cambiati i rapporti di forza economici”, ha detto a Istanbul prima delle riunioni di questa settimana del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale. Ma e’ stato il nuovo straordinario potere finanziario della Cina – non disgiunto dalla rabbia sia dei Paesi produttori che dei Paesi consumatori di petrolio nei confronti del potere di interferenza degli Stati Uniti nel sistema finanziario internazionale – a stimolare i recenti colloqui con i Paesi del Golfo.

Brasile e India si sono mostrati interessati a far parte di un sistema di pagamenti non piu’ basato sul dollaro. Allo stato la Cina appare la piu’ entusiasta tra le potenze finanziarie, non fosse altro che per il suo gigantesco interscambio commerciale con il Medio Oriente.

La Cina importa il 60% del petrolio che consuma, per lo piu’ dal Medio Oriente e dalla Russia. I cinesi hanno concessioni petrolifere in Iraq – bloccate fino a quest’anno dagli Stati Uniti – e dal 2008 hanno un accordo da 8 miliardi di dollari con l’Iran per lo sviluppo delle capacita’ di raffinazione e delle risorse di gas. La Cina ha contratti petroliferi in Sudan (dove ha sostituito gli Stati Uniti) e da tempo sta negoziando concessioni petrolifere in Libia dove tradizionalmente questo genere di accordi e’ del tipo joint venture.

Inoltre le esportazioni cinesi verso la regione ammontano ora a non meno del 10% delle importazioni di tutti i Paesi del Medio Oriente e includono una vasta gamma di prodotti che vanno dalle automobili agli armamenti, ai generi alimentari, al vestiario e persino alle bambole. Riconoscendo esplicitamente il crescente peso finanziario della Cina, il presidente della Banca Centrale Europea, Jean-Claude Trichet, ha chiesto l’altro ieri a Pechino di consentire alla yuan di apprezzarsi sul dollaro e, di conseguenza, di diminuire la dipendenza della Cina dalla politica monetaria americana contribuendo cosi’ a riequilibrare l’economia mondiale e ad alleggerire la pressione al rialzo sull’euro.

Dagli accordi di Bretton Woods – gli accordi conclusi dopo la seconda guerra mondiale che ci hanno tramandato l’architettura del moderno sistema finanziario internazionale – i partner commerciali degli Stati Uniti hanno dovuto affrontare le conseguenze della posizione di controllo di Washington e, negli anni piu’ recenti, dell’egemonia del dollaro in quanto principale valuta di riserva.

I cinesi credono, ad esempio, che siano stati gli americani a convincere la Gran Bretagna a non entrare nell’euro per impedire una fuga dal dollaro. Ma secondo le fonti bancarie cinesi i colloqui sono andati troppo avanti per poter essere bloccati. “Non e’ da escludere che nel paniere delle monete entri anche il rublo”, ha detto un importante broker di Hong Kong all’Indipendent. “La Gran Bretagna e’ presa in mezzo e finira’ per entrare nell’euro. Non ha scelta in quanto non potra’ piu’ usare il dollaro americano”.

Le fonti finanziarie cinesi sono convinte che il presidente Barack Obama sia troppo occupato a rimettere in piedi l’economia americana per concentrarsi sulle straordinarie implicazioni della transizione dal dollaro ad altre valute nel volgere di nove anni. Al momento la data fissata per l’abbandono del dollaro e’ il 2018.

Gli Stati Uniti hanno fatto appena cenno a questo problema in occasione del G20 di Pittsburgh. Il governatore della Banca centrale cinese e altri funzionari da anni sono preoccupati per la situazione del dollaro e non ne fanno mistero. Il loro problema e’ che gran parte della ricchezza nazionale e’ in dollari.

“Questi progetti cambieranno il volto delle transazioni finanziarie internazionali”, ha detto un banchiere cinese. “Stati Uniti e Gran Bretagna debbono essere molto preoccupati. Vi accorgerete di quanto sono preoccupati dalla pioggia di smentite che questa notizia scatenera’”.

Alla fine del mese scorso l’Iran ha annunciato che le sue riserve in valuta estera saranno in futuro in euro e non in dollari. I banchieri ricordano, naturalmente, quanto e’ capitato all’ultimo Paese produttore di petrolio del Medio Oriente che ha tentato di vendere il petrolio in euro e non in dollari. Pochi mesi dopo che Saddam Hussein aveva comunicato la sua decisione ai quattro venti, gli americani e gli inglesi hanno invaso l’Iraq.

di Robert Fisk

Fonte: www.independent.co.uk

6.10.09

Quando la recessione fa bene alla salute



La correlazione fra salute pubblica e cicli economici potrebbe essere molto più complessa di quanto finora supposto, secondo uno studio condotto da ricercatori dell'Università del Michigan che hanno analizzato i rapporti fra crescita economica e salute della popolazione degli Stati Uniti nel ventennio compreso fra il 1920 e il 1940, durante il quale si verificò la Grande depressione (1930-1933).

Secondo quanto osservano nell'articolo pubblicato sui "Proceedings of the National Academy of Sciences" (PNAS) in cui José A. Tapia Granados e Ana V. Diez Roux riferiscono gli esiti della ricerca, andrebbero attentamente distinti gli effetti a lungo termine dell'aumento del PIL (che andrebbero correlati a un insieme di più o meno lenti cambiamenti sociali di ampio respiro, come il miglioramento dell'alimentazione e la diminuzione delle dimensioni dei nuclei familiari) da quelli a breve termine indotti dai cicli economici espansivi.

Se infatti diverse ricerche hanno indicato la presenza di possibili effetti negativi a lunga scadenza dei periodi di recessione sulla salute (effetti misurati prendendo come parametri gli accessi nelle strutture ospedaliere e la morbilità), i risultati di questo studio, che ha preso un orizzonte temporale di follow-up di tre anni, sembrano infatti supportare l'ipotesi controintuitiva che, almeno sul breve periodo, la salute pubblica tende a migliorare più durante i periodi di recessione che durante quelli di espansione.

Da quanto rilevato dai ricercatori, per la maggior parte dei gruppi di età la mortalità ha toccato i suoi picchi negli anni di forte espansione economica (1923, 1926, 1929 e 1936-1937), mentre i momenti di recessione (1921, 1930-1933 e 1938) hanno coinciso con il declino della mortalità e l'aumento dell'aspettativa di vita.

L'unica eccezione, osservano i ricercatori, riguardava la mortalità per suicidio, che, pur cresciuta in discreta misura, ha pesato complessivamente per meno del due per cento di tutte le morti. Anche le analisi di correlazione e di regressione hanno confermato un significativo effetto negativo dell'espansione economica sul miglioramento della salute.

Secondo i ricercatori questo effetto paradossale sarebbe legato al fatto che nei periodi di espansione si avrebbe un aumento del consumo di tabacco e di alcol, una riduzione delle ore di sonno e un aumento dello stress fisico e psichico che potrebbero avere un'influenza negativa particolarmente marcata su quanti soffrono di patologie croniche. A ciò si sommerebbero l'aumento degli incidenti stradali e di quelli sul lavoro, e il peggioramento dell'inquinamento atmosferico, i cui effetti negativi a breve termine sulla mortalità da patologie respiratorie e cardiovascolari è ben documentata. A questo fenomeno contribuirebbe inoltre il fatto che nei periodi di espansione si è assistito a una crescita dell'isolamento sociale e all'allentamento delle misure sociali a sostegno delle fasce di popolazione più disagiata. (gg)

5.10.09

Lotta al signoraggio: quale rotta ?

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Ormai è chiaro, la battaglia per la sovranità monetaria è la causa più importante tra tutte le lotte politiche che ci è dato sostenere. Il meccanismo del signoraggio bancario, primario e secondario, affama i popoli più poveri e schiavizza quelli più ricchi, sia in senso letterale che metaforico.
Senza risolvere questo dramma, è perfettamente inutile spendersi in distinguo politici e partitici, in dibattiti su questa o quella legge particolare. Così come è oggi inutile votare o candidarsi, in questa plutocrazia mascherata che si finge democrazia e fa del voto l’alibi del proprio eternarsi.

La portata del fenomeno è tale che, risolto questo, ogni piano della nostra vita di cittadini e individui verrebbe innalzato su livelli che è difficile anche solo immaginare. Avremmo benefici non solo economici, conosceremmo cioè un benessere diverso da quello promulgato dal consumismo materialista; fatto di più tempo per noi e più spazio per la vita associata, senza l’assillo dell’insolvenza; i meccanismi finanziari che fomentano le guerre verrebbero ridimensionati, così come l’economia speculativa ridiverrebbe produttiva. Può darsi che il torbido dell’animo umano troverebbe presto un altro strumento per manifestarsi, è certo però che difficilmente sarebbe così ben congegnato come quello dell’appropriazione indebita della moneta.
Non starò qui a ricordare cosa sia il signoraggio. Vorrei invece riflettere sulla situazione odierna della lotta per sconfiggerlo, sui pericoli che incombono su di essa, così che sia possibile correre ai ripari e correggere la rotta.

A questo proposito viviamo un momento di stallo: il tema non riesce a raggiungere il grosso della popolazione. Della questione si parla già da diversi anni. Sono usciti autorevoli libri, se ne occupano vari siti internet e si tengono già da tempo delle conferenze. Ma, se da anni c’è gente che ci lavora, come mai non si è raccolto ancora nulla? Il coinvolgimento emotivo, lo sdegno viscerale che la questione suscita in chi la conosce a fondo per la prima volta, può scomparire, affievolirsi ed annacquarsi con tanta facilità? No. Sta semplicemente succedendo quello che spesso succede con il pensiero: da scoperta, da forza esterna alla coscienza, capace di scuoterla e colpirla, si è trasformato in parte di essa. E’ stato hegelianamente introiettato e ora fa parte del tranquillo bagaglio culturale dell’individuo che lo possiede. Girando per l’Italia, ho constatato che si interessano del tema, i gruppi più eterogenei: fascisti nostalgici, naziskin inacculturati, comunisti no global, ipertradizionalisti cattolici, grillini virtuali e con loro pochi cani sciolti dai più svariati interessi e orientamenti, Al di là della validità e della preparazione sul tema dei singoli individui, nella maggior parte dei casi si tende a ricreare una appartenenza ad un’elite. Negli incontri infatti i “veterani” fanno a gara con quelli che reputano nuovi arrivati, per dimostrare che loro ne sanno di più di tutti sull’ultimo bilancio della Banca d’Italia, su Gesell, sullo Scec o sul Simec, sull’omicidio Kennedy o sulle lobby massoniche.

Per l’individuo, tutto si trasforma in pezzi di identità da mantenere, da sbandierare, con cui distinguersi. Ciò impedisce il dialogo costruttivo e, intrappolando la questione signoraggio ora in un’aura miracolistica e misticheggiante, ora in un semplice fatto di appartenenza partitica, ora in un’esperienza qualsiasi ma diversificante, si allontanano quelli che in tali vesti non si riconoscono.
Solo per fare un esempio, in occasione del terzo anniversario della morte di Giacinto Auriti, mi è capitato di partecipare ad una riunione di “Auritiani”, come loro si sono definiti, e di fare con loro il giro delle chiese e delle chiesette di un’intera provincia abruzzese, nonché di sentir raccontare un’infinità di aneddoti religiosi su “Don Giacinto” e di sentir dire che non può capire a fondo il tema del signoraggio chi non comprende “la realtà delle due eucaristie, quella divina e quella demonica”.
Quello che mi chiedo è se un motivo di lotta può essere frustrato tanto da diventare solo un irrinunciabile segno di identità o in rari casi piccola fonte di sostentamento.

Insomma, ritengo che bisogna sgomberare il campo da personalismi, appartenenze a conventicole e gruppuscoli, abbandonare, per lo meno all’inizio, approcci dogmatici e parziali. Non perché in essi non vi sia verità, anzi. Ad esempio nell’approccio cristiano-tradizionale c’è molto di vero e di sano e la lotta cattolica all’usura, come ho scritto in articoli precedenti parlando di San Bernardino, è un esempio importante da seguire. E’ solo che si rischia di allontanare chi in essa non si riconosce pur condividendo la sostanza della critica al signoraggio, che può avvenire per mille motivi: da quello puramente economico (maggior benessere per sé) a quello morale, da quello estetico (bruttezza di ogni mascheramento del potere) a quello storico-politico (revanscismo post-bellico) e via dicendo.
Non è il momento di fare a gara sulla paternità della lotta, piuttosto occorre concentrarsi su pochi concetti da diffondere, la cui comprensibilità è sì ostica ma non così tanto come si crede.

Ci si deve chiedere piuttosto come mai, pur avendo raggiunto partiti politici, il signoraggio non abbia fatto breccia nel cuore e nel cervello della gente. Ne hanno parlato Storace, Buontempo, Tremonti, Ferrando, ne ha accennato Di Pietro e alcuni suoi uomini, e persino la Lega lo ha fatto proprio ma, è un dato di fatto, l’argomento non è “passato”.
E’ un problema strategico: impossibile raccogliere consensi intorno ad un partito del due per cento, solo perché questo propugna la lotta al signoraggio. Esso rimane un partito con una sua identità e la gente che le è estranea, pur essendo contro l’usura delle banche centrali, non andrà nemmeno ad informarsi su che cosa pensa quel partito in tema monetario. Occorre creare un partito apposito, con un unico punto programmatico: rinunciamo all’euro e lo Stato (non Bankitalia) stampi una sua moneta con su scritto “proprietà del portatore”, senza alcuna creazione di debito.
In realtà tale progetto lodevole sembrava essere partito ma sono passati già alcuni mesi dalla sua comparsa senza che ne sia sortito alcun fatto concreto.
Certo, si tratta di una battaglia difficilissima, disperata quasi, ma è l’unica soluzione. Lancio un’idea, senza preoccuparmi troppo delle strategie di realizzazione pratica: si faccia un’associazione con un rappresentante per provincia e si organizzino conferenze nei comuni, appoggiandosi alle altre associazioni culturali. Una volta conclusa l’opera d’informazione nei paesi si tirino le fila e si trasformi l’associazione in un movimento politico. Raccogliendo il sei-sette per cento si sarebbe forse in grado di entrare in una coalizione e di “forzare la mano” imponendo dal primo giorno la realizzazione dell’unico punto di programma.
di Matteo Simonetti

4.10.09

Santoro, Vespa e il sistema



Sono d'accordo anch'io che l'intervento del governo contro Annozero, oltre che illegittimo, è un'intimidazione inaudita, aggravata dal fatto di avvenire all'interno di un panorama televisivo nazionale occupato per i quattro quinti dal centro destra. Ma mi rifiuto di considerare Michele Santoro una vittima di regime. È piuttosto un prodotto, insieme a Bruno Vespa e ad altri conduttori, della distorsione oligopolista, e in alcuni periodi quasi monopolista, del sistema.
Supponiamo, per un attimo, di vivere in un Paese "normale", per usare un'espressione cara a D'Alema, dove c'è una Rete di Stato e altri quattro o cinque network indipendenti della stessa potenza. In quest'ipotetica Italia un ipotetico Santoro conduce sulla Rete di Stato un programma che, per vari motivi, non piace al suo Direttore. Può costui cancellare il programma ed eventualmente licenziare il conduttore che non lo convince? Certo che può è lui il responsabile di fronte all'Editore, altrimenti che ci sta a fare? In quest'ipotetica Italia l'ipotetico Santoro verrà ingaggiato da un altro network e, se davvero è così bravo, farà grandi ascolti e il Direttore che lo ha cacciato risponderà al proprio Editore per aver danneggiato l'azienda a vantaggio della concorrenza.
Ma nell'Italia reale le cose non stanno così. Se Santoro venisse licenziato non avrebbe alternative all'altezza (essendo per lui impensabile un passaggio a Mediaset). Questa che apparentemente è la sua debolezza è invece la sua forza. Perché diventa inamovibile, dato che qualsiasi intervento contro di lui o il suo programma si configura oggettivamente come un attentato alla libertà d'informazione. Tanto è vero che furoreggia da decenni, sui canali nazionali, come, dall'altro versante, Bruno Vespa, con i suoi modi più melliflui e subdoli. Tra l'altro non possiamo nemmeno sapere se i Vespa e i Santoro sono davvero così bravi, perché come non c'è una reale concorrenza a livello di Reti, non c'è neanche una reale concorrenza fra conduttori. Non hanno rivali. Anch'essi sfruttano l'oligopolio e fanno da tappo all'ingresso di forze più fresche, nuove, diverse ed eventualmente più capaci e meno ideologicamente schierate.
Come si esce da questa situazione aberrante? Concettualmente è chiaro. Si chiama "disarmo bilaterale", di cui qualche volta si è parlato: una Rete alla Rai che dipenda direttamente dal governo, come la Bbc inglese, perché anche il governo, che rappresenta tutti i cittadini, ha il diritto di dare un suo indirizzo latu sensu culturale al Paese, una Rete a Mediaset, e le restanti quattro messe sul mercato e vendute a editori indipendenti dalle prime due e indipendenti fra loro.
Ma a questa soluzione non si arriverà mai (se non, forse, nel Quarto Millennio) perché conviene a tutti. A Berlusconi perché consente al cosiddetto campione del liberismo di mantenere, con le sue tre Reti, una posizione totalmente illiberista col pressoché totale dominio dell'intero comparto televisivo privato nazionale. Ai partiti nel loro complesso, di sinistra e di destra, perché così possono continuare ad occupare arbitrariamente e illegittimamente la Rai, contro la Costituzione (che in nessun passaggio a ciò li autorizza) perché come Ente di Stato dovrebbe appartenere a tutti i cittadini e non ad alcune organizzazioni private quali i partiti sono. E conviene agli inamovibili Vespa e Santoro.
Conviene a tutti tranne che a noi cittadini. Che continueremo ad assistere in eterno a dibattiti impossibili, fasulli, grotteschi e truffaldini sull' "imparzialità" dell'informazione pubblica, come se ci fosse qualcuno che possa valutare oggettivamente un concetto così soggettivo, tanto più in un sistema in cui i vertici Rai, il Consiglio di Amministrazione, la Commissione di Vigilanza, i direttori, i vicedirettori, i capi struttura, oltre ai fattorini, sono tutti di nomina partitica, per cui ciò che è "imparziale" per l'uno diventa, automaticamente, "fazioso" per l'altro. Che barba, che noia, che stufida. Che voglia, nella nostra totale impotenza di sudditi, di spaccare tutto.

di Massimo Fini

3.10.09

Brunetta ci azzecca sul Britannia




- Nel corso della sua sfuriata al convegno del PdL di Cortina d'Ampezzo, il ministro Brunetta ad un certo punto ha interrogato il suo pubblico: "Ve lo ricordate il Britannia?".

"Ve lo ricordate il Britannia? Se non ve lo ricordate", dice Brunetta, "ve lo ricordo io. Il Britannia è una nave, appartenuta già alla casa reale inglese, che navigò davanti alle coste italiane [...], ospitando dentro banchieri, grand commis dello Stato, esponenti vari della burocrazia... in cui si svolse un lungo seminario, durato un paio di giorni, in cui si trassero le linee della svendita delle aziende di stato italiane".

Benché imperfetta, l'evocazione di quel complotto, denunciato dall'EIR nel 1993 (vedi la documentazione riepilogativa), riapre il sipario sul secolare tentativo di Londra di "scrivere il destino" dell'Italia (come di tanti altri Paesi).

In questa strategia imperiale, secolare e globale, trovano posto tutte le azioni che possano rivelarsi utili a ricondurre l'Italia ad uno stato di molto precedente quello del boom economico postbellico, di fatto preda del sistema imperiale della globalizzazione.

A questo riguardo, è più interessante guardare al timoniere, piuttosto che agli ospiti del Britannia. Se vogliamo dirla tutta, si tratta della stessa cricca che arma la mano degli "insorti" che hanno trucidato i sei soldati italiani in Afghanistan. Non vogliamo certamente dire che Draghi ordina ai Talebani di bombardare i nostri soldati ma, come abbiamo scritto, che "il tritolo che ha ucciso i soldati italiani è stato pagato con i soldi di Soros".

In altre parole, il pasticcio afghano in cui si è cacciata l'Italia a seguito degli Stati Uniti, è stato orchestrato dalle stesse forze del "nuovo impero britannico" che partorirono l'operazione Britannia. L'assalto contro l'Italia, che ebbe il culmine nell'anno del Britannia e che prosegue nella misura in cui dall'Italia si manifestano resistenze al nuovo impero della globalizzazione, al salvataggio delle banche ecc., va inquadrato nella strategia globale con cui si tenta di demolire gli stati nazionali per far posto alla Nuova Torre di Babele, come dice LaRouche. La guerra in Afghanistan fu escogitata per coinvolgere gli Stati Uniti in un disastro strategico e subire la stessa sorte che subì Atene con la Guerra del Peloponneso. A livello regionale, è la riedizione della strategia ottocentesca dell'Impero Britannico per il controllo dell'Asia meridionale.

Abbiamo più volte, in questo sito, documentato il ruolo degli inglesi nel "combattere e proteggere" i talebani, tanto da aver ottenuto per loro tramite un aumento della produzione dell'oppio. Dalle montagne afghane ai mercati della droga occidentali, riecheggia il nome di George Soros, paladino delle campagne per la liberalizzazione. Quel George Soros che l'Italia conobbe nella vicenda del Britannia e del successivo attacco alla lira che ci tramortì e ci fece accettare l'Euro senza batter ciglio.

Tuttavia – è bene ricordarlo - l'ossessione dei "Britannia Boys" non è l'Italia. Nel contesto della crisi globale, del collasso economico più grave della storia umana da noi conosciuta, l'oligarchia punta a rimuovere ogni paletto con cui la cospirazione repubblicana, che in America lottò in favore della "comunità di nazioni perfettamente sovrane" da contrapporre all'Impero Britannico, ha assestato i suoi successi storici.

Aver trascinato gli Stati Uniti, l'Italia e altri Paesi in Afghanistan, ovvero negli stessi luoghi in cui l'Impero Britannico sin dall'Ottocento non ebbe mai la meglio contro i "fanatici ribelli", è l'estremo tentativo (forse il più palese, oltre quello del salvataggio degli speculatori con emissioni di credito nazionale americano) di far affossare il sistema americano e ogni altra sua influenza nelle istituzioni di altre nazioni.

Chi dovrebbe sostituire gli Stati Uniti nella loro egemonia globale (non priva di macchie) è, nella mente dell'oligarchia, il governo mondiale attraverso "quel che è di Cesare", declinato nelle forme del "Financial Stability Board", o del Fondo Monetario Internazionale.

L'Italia, grazie all'azione di Tremonti che si oppone ai salvataggi indiscriminati delle banche, è un ostacolo da rimuovere su questa strada, specialmente in vista della prossima grave fase della crisi, in cui si chiederà agli Stati di dissanguarsi ulteriormente per gli speculatori. Non pretendiamo che Brunetta afferri tutto ciò, ma constatiamo che denunciando i "Britannia Boys", egli esprime un pensiero condiviso nel governo. Non basta per conquistare la fiducia del popolo italiano e di chi egli vorrebbe sganciare dalle "elites parassitarie". Occorre abbandonare il liberismo e sposare quelle tesi rooseveltiane e quella Nuova Bretton Woods di LaRouche che Brunetta ha finora osteggiato .

(MoviSol)

2.10.09

Tg1, la realtà deformata




Qualche numero essenziale, per capirci meglio. Nella campagna elettorale per le elezioni europee, secondo uno studio del Censis (9 giugno 2009), il 69,3 per cento degli elettori si è informato e ha scelto chi votare attraverso le notizie e i commenti dei telegiornali.

I tiggì sono il principale mezzo per orientare il voto soprattutto tra i meno istruiti (in questo caso, siamo al 76 per cento), i pensionati (78,7 per cento) e le casalinghe (74,1 per cento).

È necessario cominciare allora da questa scena. Più o meno sette italiani su dieci - che diventano otto su dieci tra chi è avanti con gli anni, è meno istruito o è donna che lavora in casa e per la famiglia - scrutano la vita, la realtà e il mondo dalla finestra aperta dai telegiornali - tra cui il Tg1 e il Tg5 - da soli - raccolgono e concentrano oltre il 60 per cento del pubblico. Nella cornice di questa finestra buona parte degli italiani matura emozioni, percezioni, paure, insicurezza, fiducia, ottimismo, consapevolezze, orienta o rafforza le sue opinioni. Che cosa vedono, o meglio che cosa gli mostra quella finestra? Nello spazio stretto, quasi indefinito, tra la realtà e la sua rappresentazione mediatica si possono fare molti giochetti sporchi. Per esempio, spaventare tutti con il fantasma di un'inarrestabile criminalità che ci minaccia sulla soglia di casa o eliminare ogni incubo cancellando ogni traccia di sangue e di crimine. Nel secondo semestre del 2007 (governa Romano Prodi), i sei tiggì maggiori dedicano a fatti criminali 3.500 cronache. Nel primo semestre di quest'anno (Berlusconi regnante) 2.000 (fonte, Osservatorio di Pavia, report "Sicurezza e Media", curato da Antonio Nozzoli). Stupefacente il tracollo di storie nere nel Tg5. Con Prodi a Palazzo Chigi, le cronache criminali sono 900 (secondo semestre 2007). Diventano con Berlusconi 400 (primo semestre 2009). Il Tg1 Rai non giunge a tanto. Le dimezza: da 600 a 300.

È un gioco sporco, facile anche da fare: ometti, sopprimi, trucchi la scena secondo le istruzioni politiche del momento. Più o meno, un gioco delle tre carte. Carta vince, carta perde. Il crimine c'è e ora non c'è più perché il governo lo ha sconfitto o ridimensionato. Se fosse necessaria una nuova stagione di paura e di odio, riapparirebbe nelle mani del sapiente cartaro. In questa tecnica di governo non è necessaria l'azione, l'agire, mettere in campo politiche pubbliche contro il crimine, di sostegno alle imprese e alla famiglie, di protezione sociale per chi perde il lavoro, per fare qualche esempio. È sufficiente comunicare che lo si sta facendo, che lo si è fatto, e magari gridare al "miracolo". Come per il terremoto dell'Aquila. Ogni settimana, il capo del governo si autocompiace per l'evento incredibile, prodigioso che ha realizzato. Ma è autentico "il miracolo di efficienza"? Se si stila una classifica dei tempi di assegnazione di "moduli abitativi provvisori" si scopre che a San Giuliano di Puglia, i primi 30 moduli furono consegnati a 82 giorni dal sisma, in Umbria a 98 giorni, finanche in Irpinia (dove ci furono 3000 morti e 300 mila sfollati) in 105 giorni mentre in Abruzzo i primi moduli sono stati attribuiti a Onna dopo 116 giorni. Non basta dunque il racconto di un fatto in sé per comprenderlo. Il fatto in sé diventa trasparente soltanto se si rendono accessibili e trasparenti i nessi, le relazioni, i conflitti che vi sono contenuti. Privato della sua trama, delle sue relazioni con il passato e con il futuro, il fatto deteriora a immagine, a spettacolo e dunque è vero perché il fatto è lì sotto i nostri occhi; al contempo, è falso perché è stato manipolato, ma in realtà è finto perché l'immaginazione vi gioca un ruolo essenziale e parlare di "miracolo" - non c'è dubbio - aiuta la fantasia.

Il capolavoro di questa tecnica di comunicazione che diventa disinformazione lo raggiunge, come si racconta a pagina 13, il Tg1 di Augusto Minzolini quando dà conto delle disavventure di Silvio Berlusconi alle prese con gli esiti di una vita disordinata che gli consiglia di candidare a responsabilità pubbliche le falene che ne allietano le notti. Il caso nasce politico: così si rinnovano le élites? Se ne accentua la politicità con l'intervento di Veronica Lario che rivela le debolezze e la vulnerabilità del premier. Berlusconi avverte che in ballo c'è la sua credibilità di presidente del Consiglio. Va in televisione a Porta a porta per spiegarsi. Gioca male la partita. Mente, si contraddice. Gliene si chiede conto. Farfuglia. Tace. Decide di rivolgersi a un giudice per vietare che gli si facciano anche delle domande. È l'ordito di un "caso" che diventa (a ragione) internazionale. Il Tg1 lo spoglia di ogni riferimento. Dà conto soltanto degli strepiti del Capo: "complotto", "trama eversiva". Si lascia galleggiare quest'accusa. Contro chi? Perché? Che cosa è accaduto? Non lo si dice. Appare la D'Addario. Ha trascorso una notte con il capo del governo, è stata candidata alle elezioni. È la conferma dell'interesse pubblico dell'affare, è la prova della ricattabilità di Berlusconi. Minzolini fa finta di niente. Cancella i rilievi dei vescovi; della figlia di Berlusconi, Barbara; l'attenzione della stampa internazionale. Spinge in un altro segmento del notiziario il destino del direttore dell'Avvenire, accoppato per vendetta dal giornale del Capo; i traffici di Gianpaolo Tarantini, il ruffiano di Palazzo Grazioli. Senza contesto e riferimenti, che cosa può comprendere quel 69,3 per cento di italiani che si informa soltanto attraverso le notizie del Tg? Nulla. Non comprenderà nulla e potrà bere come acqua di fonte che si tratta soltanto, come dice il direttore del Tg1, "dell'ultimo gossip". (I sondaggisti non sembrano curarsi di che cosa sappiano davvero dell'affare gli spettatori disinformati che interrogano).

Non siamo soltanto alle prese con una cattiva informazione o con un giornalismo di burocrati obbedienti. Abbiamo dinanzi un dispositivo di potere con una sua funzione psicologica determinante. Siamo assediati dal crimine o no? Devo avere paura o fiducia? All'Aquila c'è davvero un "miracolo" che presto toglierà dai guai tutti coloro che ne hanno bisogno? C'è "un complotto" che minaccia il premier o il premier ha combinato qualcosa che dovremmo sapere e che lui dovrebbe spiegare? Se - tra soppressioni, omissioni, menzogne - si abituano le persone a questa confusione inducendole a credere che nulla sia vero in se stesso e che ogni cosa può diventare vera o falsa per decisione dell'autorità e con l'obbedienza dei tiggì, si nientifica la realtà; si distrugge l'opinione pubblica; si sterilizza la coscienza delle cose; va a ramengo ogni spirito critico. È quel che accade oggi in Italia dove un unico soggetto pretende di detenere - con il potere - la verità, il diritto all'autocelebrazione, al racconto unidimensionale, ogni leva delle nostre emozioni e delle nostre esperienze. Oggi che si discute di che cosa deve essere il servizio pubblico, vale la pena ricordare che la libertà dell'informazione non è fine a se stessa, ma è solo un mezzo per proteggere un bene ancora più prezioso della libertà del giornalista: il diritto dei cittadini a essere informati.

di GIUSEPPE D'AVANZO