23.7.06

Lo stato Eletto... dai cingolati


Lo stato di Israele, che è presentato come l’ avamposto della democrazia occidentale nel mondo arabo, ha invece invaso il Libano, agendo alla stessa stregua di uno stato totalitario.
Ma quel che è più sorprendente è la fede che, purtroppo, destra e sinistra dimostrano nella democrazia dei cingolati.
Chi in modo più rozzo, chi più sofisticato, sembrano tutti d'accordo. Il discorso dominante sulla tremenda crisi scoppiata nel Medioriente è una specie di inno all'assunto che Israele ha il diritto di difendersi e che per Israele la difesa non può essere altro che guerra colpo su colpo.
A ogni «incidente», grave o meno grave, e questo che stiamo vivendo è gravissimo per la strategia d'attacco che si indovina sullo sfondo, si torna alla casella zero. La giustificazione dell'«autodifesa» di Israele diventa il perno prioritario e esclusivo che offusca tutti i precedenti, il contesto, la somma di torti e ragioni che si sono accumulati per mezzo secolo di storia in una situazione così complessa.
Il pretesto è sempre la minaccia suprema, il mancato riconoscimento dello stato ebraico. Ma il «rifiuto arabo», un dato di fatto all'atto dell'istituzione di Israele, è stato superato da un pezzo. Ci sono documenti, prassi, accordi applicati o non applicati. Era scontato se mai che il «rifiuto» si sarebbe riproposto persino nelle more del «negoziato di pace» basato sullo schema dei due stati per due popoli se la spartizione non avesse esaudito le premesse minime dell'identità dello stato palestinese e quasi della sua «esistenziabilità».
Non di soli tracciati - i «confini sicuri» di cui parlano i testi diplomatici - vive la pace. E puntualmente l'Intifada del 2000, rilanciando la lotta armata, ha rivelato che l'accettazione dello stato ebraico da parte dei palestinesi può essere precaria. Sotto una certa soglia, quanto più la Palestina sarà un falso stato - menomato nelle prerogative consuete della sovranità, impedito nelle comunicazioni con il mondo esterno, senza un'economia vitale - tanto più è probabile che si autorealizzi la profezia per cui la Palestina, e se del caso il Libano o la Siria, sarà sempre un nido di terroristi e una rampa di lancio per una rivincita araba.
Per il rispetto che Israele ha mostrato in passato e mostra oggi non solo nei confronti del non-stato della Palestina ma anche degli stati costituiti che lo circondano, del resto, una questione di «riconoscimento» dell'esistenza o sovranità altrui riguarda anche la politica di Israele. Gli attacchi partiti da Gaza o dal sud del Libano sono essi stessi atti di guerra e chi li compie è convinto di avere un diritto di difesa o di resistenza di fronte a una storia di occupazione, soprusi e frustrazioni.
I fallimenti della leadership araba si sono spesso tradotti nello scontro per lo scontro. E' accaduto sia nella grande rivolta del 1936 che nell'invasione del 1948 e poi nella provocazione culminata nella guerra del 1967, con altrettante disfatte per gli arabi e il movimento palestinese, e lo stesso potrebbe essere il senso dell'ultimo soprassalto di violenza.
L'assurdo è che il medesimo errore di scambiare la guerra per un fattore di forza e non di debolezza lo commetta Israele, che a suo vantaggio ha tutte le risorse della statualità, della tecnica, della politica e l'appoggio incondizionato dell'unica superpotenza.
La guerra, ogni tipo di guerra, istituzionale o informale a seconda dei mezzi a disposizione di ciascuno, la prima o ultima chance non importa, la guerra preventiva o di reazione, è parte del problema, per certi aspetti è il problema, e lo perpetua anche oltre l'eventuale e comunque lontanissima pace (già sul piano concettuale). Se per una volta il pacifismo e il realismo coincidono, dovrebbe essere un motivo in più per non cedere sui principi.
Finché la cosiddetta comunità internazionale non avrà dissolto il dubbio tutt'altro che astratto che i «diritti» riconosciuti e protetti siano tutti da una parte, sarà impossibile arrivare a una soluzione e intanto a una tregua.
Questo solo basterebbe a sollecitare una qualche forma di internazionalizzazione, che purtroppo il governo israeliano ha sempre respinto senza nemmeno accennare a discuterne le condizioni.

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