7.4.10

La speculazione verde



L'economia occidentale, Stati Uniti in testa, sta cambiando pelle... gli artropodi (come i crostacei o i ragni) per crescere devono periodicamente abbandonare il rivestimento ormai troppo stretto per averne uno più spazioso. Tra i vertebrati, anche i serpenti fanno la muta: un periodo di vulnerabilità necessaria per poter portare vestiti più larghi. Anche il “capitalismo” dell'era manageriale [1] — che non ha più niente a che fare con l'archeocapitalismo patrimoniale con cui i paleomarxisti continuano a tartassarci - conosce cicli di mutamento o trasformazione sistemica.



Nel 1945, un modello economico si infrange su ciò che all'epoca veniva chiamato “il mondo libero”. Un modello che suggella l'integrazione dell'agricoltura nel settore industriale, annunciando così l'unificazione, tuttora visibile, del mercato globale. Uno dei tratti salienti del cambiamento riguarda quindi il settore primario (trasformazione delle risorse naturali e delle materie prime non trasformate), con la meccanizzazione aggressiva e la conquista del mercato della produzione agricola da parte delle multinazionali dell'agrochimica. Ben presto molti contadini un tempo indipendenti diventeranno solo dei subappaltatori, operai-mezzadri, transnazionali dell'agroindustria.



Questo passaggio da un'economia ancora dominata ieri dalla ruralità (in Francia, nel 1906 il 43,8% della popolazione viveva ancora direttamente della terra e nel 1954, il 31%) a un'economia già post industriale (così ben illustrata dal film Play Time di Jacques Tati, 1967) mette la parola fine alla grande crisi del 1929, di cui la guerra fu una delle diverse conseguenze. Ci vorranno inoltre molti anni agli Stati Uniti per beneficiare completamente delle conseguenze della loro vittoria, in particolare attraverso gli aiuti legati al piano Marshall. I giganti statunitensi delle macchine agricole semoventi irrompono sul Vecchio Continente tramite l'aiuto alla ricostruzione... un'industrializzazione che segna la morte delle terre e la fine del mondo rurale.



L'Europa occidentale comincia allora, a marcia forzata, a mettersi alle norme angloamericane; si apre ora un'epoca che verrà chiamata impropriamente i “Trenta gloriosi”. L'adozione del “modello” produttivista porta infatti, fin dal 1945, a un esodo massiccio dei campagnoli che affluiscono alla periferia delle città. Esodo che finirà solo negli anni Settanta in seguito alla politica di ricostituzione delle terre agricole cominciata nel 1965. Una migrazione che porta presto all'ipertrofia carcinogenica delle “banlieues” in cui si ammucchiano e crescono le città dormitorio, depositi umani dove si ammucchieranno poi nel 1962 i rimpatriati d'Algeria, e che accoglieranno poi il flusso crescente dell'immigrazione.



Vediamo oggi quali sono i veri benefici di questo primo grande mutamento della fine dell'era industriale: paesaggi livellati dalle ristrutturazioni territoriali e dal ricorso a macchine sempre più mostruose, concimi e pesticidi che inquinano l'aria che respiriamo fin dentro alle nostre metropoli... l'esodo rurale che si è dispiegato per quarant'anni in Europa occidentale, si svolge oggi sotto i nostri occhi nell'Europa orientale sottomessa alle costrizioni normalizzatrici legate alla “costruzione” europea. E questo, senza che le lezioni di un passato ancora recente siano, in un qualsiasi modo, state tirate.



Sembra che il 2008 sia stato segnato da una rottura analoga – perlomeno dal punto di vista civilizzazionale – a quella che accompagnò la vittoria alleata sul Reich tedesco. Dopo la distruzione accelerata delle società tradizionali dell'Europa occidentale, che sono state letteralmente “sradicate”, per trovarsi proiettate nella modernità consumistica (in questo periodo passiamo da un'economia basata sul risparmio a un'altra fondata sul credito e in seguito sul debito cronico – una forma inedita di servaggio), assistiamo ora a un nuovo cambiamento di paradigma ecosocietale.



Nel 2010, dopo le difficoltà precedenti, è un altro modello che tenta di instaurarsi che ridurrà verosimilmente l'industria occidentale alla porzione congrua, in favore delle attività di servizi e ad alto valore aggiunto (elettronica, genio genetico, nanotecnica, bionica...). Ma tutto sommato, checché se ne dica, se la potenza della Cina cresce, affermandosi così come laboratorio del mondo, le fonti del potere economico planetario nella sua dimensione finanziaria si trovano ora sugli argini del Tamigi, del fiume Hudson (e eventualmente dell'Amstel), e sulla riva sinistra del Potomac, dove si trovano le grandi istituzioni finanziarie: Banca mondiale, Fondo Monetario Internazionale e soprattutto la Riserva Federale.



La rivalità euro-dollaro



Il regno del dollaro è certo contestato, ma è ancora capace di risollevarsi [2]. L'abbiamo visto in occasione della sua rivalutazione del febbraio 2010 di fronte a un euro in preda a attacchi inimicali. Eventi troppo recenti per essere perfettamente chiariti ma che si svolgono, come succede spesso, secondo una trama stabilita: alcuni stabilimenti finanziari di Manhattan, come Goldman Sachs, avrebbero da una parte aiutato lo Stato greco a negoziare il suo debito sui mercati, dall'altra manipolerebbero certi “fondi speculativi” (hedge funds) per sferrare attacchi contro l'euro, quindi attraverso la Grecia contro l'Unione europea ... e questo la dice lunga sull'audacia di questi raiders e sulle capacità offensive del sistema, sull'arte e la scienza della manipolazione del debito per mettere gli Stati sotto tutela (o per richiamarli all'ordine). L'FMI, organo sussidiario dell'informale governance mondiale, non ha proposto, in occasione della crisi ellenica, di venire qui a immischiarsi per aiutare l'Europa sottosviluppata ormai incapace di gestire da sola il proprio debito? Questi santuari del dio dollaro continueranno a esistere, quindi, finché vi si troverà la fonte creatrice della nuova economia mondiale finanziaristica, considerata allo stesso tempo come arte, scienza e tecnica... cioè finché queste piazzeforti dell'ultracapitalismo in cui si elaborano le gamme dei nuovi prodotti virtuali e gli strumenti relativi, costituiranno il cuore del reattore dell'economia mondiale... ecco perchè quando, il 15 settembre 2008, questo cuore ha smesso di battere per un momento, è l'intero pianeta a essersi bloccato.



Verso l'America-mondo



Seguendo in questo l'esempio statunitense, l'Europa passa progressivamente (ma con alcuni incredibili passi indietro: ondata di ristrutturazioni e delocalizzazioni degli anni Novanta, contrazione brutale del 2009...) da un'economia di produzione a un' “economia di servizi” in gran parte dominata dal turismo (L'Europa-museo, un misto di Disneyland e Versailles).



Dopo lo spodestamento del gigante automobilistico General Motors (dalla Toyota e poi dalla FIAT, e questo fatto è concorde col seguito del nostro discorso), l'inventiva America è già “altrove”. Se le industrie in generale non possono ovviamente essere abbassate al rango di reliquie economiche, ciò non toglie che, da parte sua, la prosperità degli Stati Uniti ne dipenda ormai solo in minima parte.



Notiamo tra l’altro che alcune attività portano le economie periferiche a dipendenze quasi assolute nei confronti del “centro” emittente. Prendiamo l'esempio del sementiero Monsanto che, grazie a specie vegetali geneticamente modificate (OGM), allarga la sua influenza su una parte crescente del pianeta creando stretti legami clientelistici tra i produttori – specialmente per quanto riguarda i brevetti delle semenze –; legami di costrizione che molti farebbero fatica a rompere... e causa di fallimento per i produttori locali.



Si vede chiaramente dal nostro discorso che l'attività “motrice” dell'economia nordamericana, al momento tende a essere l'ingegneria finanziaria, con il suo seguito di prodotti derivati declinati in gamme sempre più estese, originali e innovanti.



“Regredendo”, il settore industriale dovrà trovare il suo posto in seno alla nuova forma di capitalismo in corso di elaborazione: occupare cioè una nuova funzione in seno a un sistema globale la cui fonte (già in bella vista e per un tempo indefinito) abbiamo detto non essere altro che l'America-mondo



Il carbonio, economia smaterializzata



L’agilità di adattamento dei salariati statunitensi – anche se è abitudine parlare ora, alla maniera anglosassone, di flessibilità – abituati come sono a un' “economia nomade” (in America nessuno esita a spostarsi dal nord al sud e dall'est all'ovest del continente per lavoro; uno stato d’animo ereditato dai migranti del vecchio mondo, dal Pioneering Spirit o semplicemente, da una necessità impostasi con la Grande Crisi degli anni trenta) che non è propria delle tradizioni della vecchia Europa... a dispetto del fatto che quest'ultima ha conosciuto importanti ondate d'emigrazione principalmente verso gli Stati Uniti: Italiani, Greci, Svedesi e un quarto degli Irlandesi dopo la grande carestia del 1845-1849.



A torto quindi gli Europei seguono l'esempio della deindustrializzazione statunitense e ci avventiamo a tutta forza negli inganni dell'economia smaterializzata e della sua ultima creazione, l'economia-carbonio.



Fragilizzata dalla mondializzazione e dalla concorrenza dei paesi produttori il cui costo sociale e ambientale è minore, l'industria europea vive un momento orribile, ecco perché è necessario denunciare senza sosta la trappola tesa dalla classe politica europeista, di “destra” come di “sinistra”, che vorrebbe sprofondare ancor di più la produzione industriale sotto queste tasse sul carbonio, che non sarebbe altro che ulteriori penalizzazioni in un settore già saccheggiato dai prodotti manifatturieri ultra concorrenziali delle cosiddette economie emergenti.



Non parliamo qui dei gruppi transnazionali che, loro sì, scappano ampiamente all'imposta (tasso medio di imposizione al 30% contro il 45% per le imprese ordinarie in Francia) grazie alle piazze finanziarie off shore (ossia i paradisi fiscali insulari). Una situazione perfettamente ingiusta ma resa necessaria dalle condizioni stesse della concorrenza mondiale... Quanto a Michel Rocard, ex primo ministro socialista, da allora presidente della Conferenza di periti sulla tassa carbonio o Contributo Clima Energia (CCE), si è eretto a buon apostolo dei tassi proibitivi per l’imposta carbonio, al modo dei “Verdi”, che paradossalmente sono riusciti a convincere l'opinione pubblica del loro impegno filantropico al servizio dell'umanità sfruttata.



Grandi potenze interdipendenti eppur in guerra le une contro le altre



Il lettore comincerà sicuramente a capire il nostro discorso... essendo Londra e Amsterdam la postazione arretrata - avanzata di Manhattan, la cui influenza si stende sull'Unione europea tramite il “NYSE Euronext, Inc”, nato nel 2007 dalla fusione tra il New York Stock Exchange e il gruppo Euronext (anch'esso derivato dalla fusione nel 2006 del London International Financial Futures and options Exchange con le Borse di Parigi, Amsterdam, Bruxelles, Lisbona e Porto), l'Europa si sente spinta a fondersi sempre più nella nuova economia del “nulla”.



Con “nulla” bisogna intendere attivo artificiale, valore materialmente inesistente, giochi di scritture (tra cui le quote d'emissione carbonio) accompagnate da belle parole, il dollaro di carta e la sua versione obbligazionaria sotto forma di Buoni del tesoro... ricordiamo che nel 2009 lo Stato federale statunitense faceva stampare le banconote – il cui valore reale si riferiva al solo costo di stampa – con cui si ricomprava con la mano sinistra i buoni del Tesoro emessi con la mano destra. Stupefacente gioco di mano!



Giochi di scritture, giochi di prestigio e economia virtuale sono un tutt'uno. L'economia carbonio, le nuove filiere verdi create dal niente a partire da calcoli e conclusioni che si fregiano dei prestigi della scienza per meglio tradire, non ha ovviamente come finalità un riorientamento sostanziale dell'economia in favore di una gestione razionale delle risorse domestiche future, ma il rilancio della crescita e il consolidamento del Mercato.



Da questo punto di vista, la distorsione del reale e la deviazione di una legittima inquietudine delle opinioni relative alla distruzione accelerata dell’ambiente naturale per fini mercantili, si rivelano estremamente interessanti... e se “il morto afferra il vivo”, il sistema fallito le cui turpitudini sono state messe a nudo (ma senza conseguenze immediate per lo stesso), si rifà una verginità, trasferendo la totalità del suo patrimonio genetico e delle sue capacità di nocività, all’ipotetico soccorso al pianeta ormai agonizzante.



Per il momento, contrariamente a ciò che molti pensano, l'arrivo sulla scena internazionale di nuove grandi potenze – Cina, India, Brasile – non cambia niente di sostanziale alla configurazione dinamica del Nuovo Ordine Mondiale, al contrario, dato che da allora tutti sono solidariamente interattivi in seno a un sistema unico i cui centri nevralgici si trovano nel nord est degli Stati Uniti e nel Regno Unito.



Assistiamo quindi solo a una ricomposizione della divisione internazionale del lavoro avente come corollario una mondializzazione (un mercato unificato) la cui integrazione progredisce a vista d'occhio... sommariamente, la Cina è così diventata il primo Stato-laboratorio dell'economia mondo, l'India ne è il siderurgista e il prestatario di servizi informatici, il Brasile produce gli oleo-proteaginosi necessari alla nostra sovraconsumazione di prodotti carnei e degli agrocarburanti destinati a alleggerire le dipendenze dai prodotti petroliferi importati...



Alcune delle regole comuni dell'Organizzazione mondiale del Commercio e un'interdipendenza moderatrice degli ardori concorrenziali inducono certe forme di solidarietà tra gli attori in seno al sistema universale, contribuendo quest'ultimo a creare reciprocamente ricchezza.



Nonostante ciò, sarebbe un grave errore prendere le inevitabili, se non addirittura inespiabili, rivalità tra grandi potenze per il controllo e la confisca delle risorse naturali, come una contestazione o una rimessa in questione del sistema da parte degli uni o degli altri... Feroci concorrenti che si affrontano in guerre indirette, guerre mascherate come quella per esempio che oppone gli Stati Uniti e la Cina sul continente africano, in particolare in Darfur.



Nell'ambito di questa “spietata guerra economica che non dice il suo nome” (François Mitterrand), infatti, gli antagonismi sono innanzitutto geostrategici... Ma, contrariamente ai desideri degli avversari del mondialismo, nessuno tra i “Grandi” propone una qualche rivoluzione concettuale, un'uscita dal modello ultraliberale e la costruzione di una visione olistica dei rapporti dell'uomo con il suo ambiente biologico e fisico, e del posto che deve occupare nella Natura e come individuo nell’insieme degli esseri viventi [3].



Fino a prova contraria, la Federazione russa, nemico di lunga data del blocco atlantico, non propone nessuna alternativa al sistema attuale e soprattutto, non evoca neanche la necessità di trovarne una. Nemica del blocco capitalismo dal 1945 e fino alla fine del regime sovietico, le due superpotenze non smettono per questo di fondare la propria legittimità morale su un certo numero di miti (quegli stessi che vengono oggi rimessi in causa dai Paesi Baltici) fondatori del Nuovo Ordine Internazionale nato, all’incirca, nel 1945 a Yalta. Per quanto riguarda la Cina popolare e neo imperiale, essa è l'esempio stesso di un'integrazione riuscita in seno al sistema globale ultraliberale.



Nonostante ciò, qualunque sia la forza delle interdipendenze che legano attualmente i partner e rivali (la metà delle riserve di attivi cinesi sono libelli in Buoni del Tesoro statunitensi: circa 1400 miliardi di dollari), questo non significa che non scoppieranno guerre locali o regionali... le zone di tensioni o frizioni sono numerose e ognuno si metterà d’accordo per difendere con le unghie e coi denti i propri territori di caccia:i suoi mercati, la sua clientela, le sue fonti d'approvvigionamento, le sue zone di influenza.



Le controversie Pechino-Washington su Tibet e Taiwan illustrano bene questo punto di vista. A torto si crederebbe, con più o meno autosuggestione, che l'attuale sistema di interdipendenze economiche e finanziarie forti garantiscono la stabilità e la pace. Insistiamo sul fatto che le rivalità e gli antagonismi geopolitici e geoeconomici non costituiscono in nessun caso una rimessa in causa della logica sistemica oggi all'opera per gran sfortuna degli uomini, dei popoli, della civilizzazione e degli esseri viventi in generale.



Il collettivismo non è l'alternativa



È a partire da questa constatazione che bisogna apprezzare la portata e il significato esatto della contestazione che si è espressa a Copenhagen nel novembre 2009 o al Forum sociale di Porto Alegre a fine gennaio 2010.



La posizione dei Verdi è stata analizzata come partecipante attivo di un’asta liberalista-libertaria che mira a sempre più libertà per il mercato e a un inquadramento fiscale e regolamentare sempre più stretto per le industrie nazionali medie o piccole (indipendentemente dalla loro presenza sui mercati esterni), ad eccezione dei gruppi transnazionali che, loro sì, riescono a sottrarvisi, in gran parte con l'attiva complicità dei governi grazie alle loro domiciliazioni all’estero (Macao, Cipro, Isole anglonormanne, Bahamas, enclave giuridiche come lo Stato del Delaware...)...



Ma il “sistema” non si impone? A questo proposito bisogna evitare di cadere in un moralismo da quattro soldi: la guerra economica, reale ma poco visibile per l'opinione, dipende essenzialmente dalla real politik e non dalla morale ordinaria. È facile, del resto, per i decisori politici sventolare panni rossi sotto gli occhi dell'opinione e darle in pasto i paradisi fiscali – che non hanno giocato alcun ruolo nella crisi – o le sovraremunerazioni dei traders, che non sono altro che agenti del sistema e in nessun caso decisori di primo piano.



Tante illusioni destinate a polarizzare l'indignazione e a sottrarre così l'attenzione delle folle sui punti marginali prendendo due piccioni con una fava con l'eliminazione dei “paradisi fiscali” concorrenti come la Svizzera, il Lussemburgo o il Lichtenstein. “Paradisi” che se guardiamo bene costituivano altrettanti isolati culturali e bastioni di resistenza alla laminatura mondialista e alla “moralizzazione” su misura che la precede: un'esigenza di moralizzazione degli attori in profitto solo delle piazze forti angloamericane, alla fine destinata ad assicurare un quasi monopolio ai paradisi domestici, Londra e Manhattan in primis...



L'ultraliberalismo nemico delle libertà in generale – tranne per ciò che riguarda quelle del mercato, la libera circolazione delle merci, delle belle parole e delle oligarchie che le detengono – si rivela essere in verità una forma di dispotismo esacerbato nei confronti dei produttori indipendenti e della proprietà patrimoniale.



Grazie all’esperienza, è inevitabile constatare che la “deregulation” del mercato – ciò che costituisce la sua ragion d'essere: un'assoluta libertà transazionale condizione di una supposta ricchezza delle nazioni – si accompagna necessariamente a una distruzione correlativa delle strutture sociali... poiché fluidificare il mercato implica distruggere l'organizzazione societale esistente per “ricomporla” qui, e a volte “altrove” quando si delocalizza e si licenzia massicciamente... È anche incoraggiare la frammentazione sociale segmentando il mercato all'infinito, ossia creando nuovi bisogni per nuove clientele sviluppate più o meno artificialmente a colpi di incitamenti consumistici, egotistici e libertari (dato che l'individuo si afferma in opposizione alla norma sociale)... adolescenti, bambini sempre più giovani, minorità sessuali, etniche, disfunzionali diventati tanti segmenti di un mercato comunitarizzato come fattore di divisione del corpus sociale.



Riguardo al tessuto sociale europeo, è stato smantellato e trasferito nei paesi a economia emergente lasciando sul terreno gli uomini e il loro know-how (e non parliamo dei brevetti comprati o trasferiti con le imprese spaesate!)... Bene, dato che le cose non si fanno senza problemi, , un controllo sociale sempre più stretto e norme securitarie sempre più dure s'impongono. Il paradosso quindi tra liberalizzazione del mercato e restrizioni delle libertà è solo apparente, dato che non possiamo averne una senza l'altra...



Certo gli Altermondialisti riuniti a Porto Alegre chiedevano a gran voce “una maggiore regolamentazione”, ma senza per questo rimettere in causa la logica intrinseca del sistema, tranne alcuni, destinati a ricadere nell'impostura ideologica di un anti capitalismo, utenza multipla del collettivismo.



Infatti, non più dei “Verdi”, gli Altermondialisti in generale non sono grandi contestatori dell'ordine stabilito e del paradigma ipercapitalistico (sistema dell'economia-mondo ultraliberale), che in fondo non è altro che un prolungamento modernista di un'economica di pura predazione da cui sarebbe stata soppressa la saggezza dei popoli primitivi che sapevano, loro, gestire le proprie risorse senza finirle completamente...



Cos'è infatti un sistema basato sulla distruzione senza limiti (la consumazione nel senso primo del termine) e senza riguardo per il futuro? Si tratta quindi di smettere di “divorare” il pianeta, smettere di praticare l'autofagia: quella del mondo che ci porta, la nostra matrice.



Le due facce di Lula da Silva



Sarebbe bastato osservare con divertimento le andate e ritorni Davos-Porto Alegre del presidente brasiliano Lula da Silva, dove è stato accolto come grande messaggero, per convincersi che i due summit non sono altro che due scene e due manifestazioni della stessa rappresentazione.



Tra l'altro, chi è Luiz Ignacio da Silva detto “Lula”? [4]. Rischiando di contravvenire ai cliché stabiliti, il grande araldo della sfera d’influenza altermondialista (quella che, come dice il suo nome, non si oppone al mondialismo, ma vuole orientarlo in maniera diversa) è un populista neoconservatore di moda sudamericana. Del resto ne ha anche il “profilo”: ex sindacalista trotskista, il suo percorso ideologico è tutto sommato analogo, per molti versi, a quello di molti di quegli uomini di influenza che troviamo propulsati sul davanti delle scene politiche dell'area euratlantista... o che incrociamo – in attesa di un destino federale in seno all'Unione – nelle diverse “Fondazioni” che pullulano a Washington.



Allo stesso modo, Lula da Silva ha avuto un percorso esemplare: dalla lotta sovversiva alla mega agroindustria (carburanti “verdi” e proteine vegetali) che si estende all'infinito sulle ceneri della foresta amazzonica e sul corpo di quel prodigioso gioiello naturale che è il Pantanal. Ironia della sorte, il suo nome, da Silva, rinvia alla selva primordiale, quella stessa che questo grande araldo di un mondialismo parato coi colori dell'umanismo terzomondista, questo amico dei potenti, fa distruggere a un ritmo sfrenato.



Consumare “ecologicamente”



Allo stesso modo con cui alcune mosche parassite depongono un uovo su certe formiche, e questo uovo divora il suo ospite dall'interno, la rivoluzione conservatrice neoliberale (che trae una grande parte della sua ispirazione dalla corrente rivoluzionaria trotskista), dopo essersi sbarazzata di ogni servitù etica, si è ora installata silenziosamente nella pelle dell'ecologia per fagocitarla senza far rumore.



Di modo che la “contestazione” ambientalista recuperata si ritrova al centro del sistema con uno statuto di strumento privilegiato di rilancio e accessoriamente come mezzo di legittimizzazione dell'ordine “interno”, della concentrazione dei popoli necessaria in nome dell'urgenza eco-climatica, che giustifica a posteriori il libero esercizio delle forze del mercato. Lo “sviluppo sostenibile” indora così il blasone sbiadito dell'ipercapitalismo, fa passare in secondo piano la sua contestazione e rende accettabili (libera dal senso di colpa) tutti gli eccessi di un consumo compulsivo.



Consumo che non mira a soddisfare bisogni, ma assicura il riciclaggio permanente di produzioni a corta durata di vita. Servendo, all'occasione, a compensare tutte le frustrazioni generate da modi di vita artificializzzati... A offuscare con lo stesso colpo l'ansia diffusa legata a un'instabilità societale crescente, e che accompagna l'accelerazione continua della circolazione di beni e segni monetari.



Un'accelerazione dei cicli di produzione/distruzione che destabilizza in profondità le società post-industriali dato che la ricerca di guadagni rende nomadi gli approvvigionamenti di materie prime e la produzione, essendo i fondi d'investimento in continua migrazione opportunista, come gli sciami di cavallette pellegrine. Una sovraconsumazione che libera allo stesso modo dal senso di colpa crescente installato da poco nelle coscienze (e non solo in quelle degli occidentali), che non possono più ignorare le devastazioni di un sistema predatore senza fede né legge...



Il parlare “verde”



Il “periodo verde” dell'ultraliberalismo si circonda di un'abbondante e sapiente nebbia retorica relativa a una “crescita rispettosa della natura”, questo grazie alle energie rinnovabili, alle industrie di disinquinamento, al genio genetico, alla ricerca, ecc...



Il Gruppo di Esperti Intergovernativi sull'Evoluzione del Clima (GIEC) [6], organo tecnico della governance mondiale, ha fatto un montaggio che ha gettato polvere negli occhi il tempo sufficiente a creare un nuovo elemento mitico per l'edificio ideologico, giustificando la costruzione e l'instaurazione di un potere sovranazionale a livello planetario, l'instaurazione, cioè, di una “governance” mondiale. Governance che finirà necessariamente nelle mani di oligarchie finanziarie, le stesse che nomineranno, o espelleranno, gli uomini e i governi incaricati di cambiare le loro politiche in tutto il mondo.



Il catastrofismo ecologico come interpretazione di fluttuazioni e di fenomeni climatici che scappano ancora a una piena comprensione scientifica, viene così ora sfruttato a fondo per orientare l'opinione pubblica, affinché questa si riversi nelle vie già tracciate e segnalate con cura da un “sistema” che alla fine si erge a salvatore dell'umanità.



Un passo che, appoggiandosi sulla paura di un riscaldamento climatico cataclismico, ma usando l'autorità della comunità scientifica, esclude di colpo qualsiasi riflessione di fondo e gestisce la paura... Un timore che si combina a una cultura di “solidarietà” nei confronti dei più indigenti, le cui manifestazioni sempre più spettacolari hanno avuto luogo in occasione dello Tsunami (26 dicembre 2004) e del sisma di Port-au-Prince (13 gennaio 2010). Solidarietà di massa metodicamente e mediaticamente sostenute per alimentare in abbondanza il “settore” in piena espansione dell'aiuto umanitario.



Paura universale e solidarietà attiva destinate alla fine a bandire qualsiasi ragione critica nei confronti di un sistema che allo stesso tempo sfrutta la paura e la compassione, sullo scenario di un ottimismo irrazionale per il quale “l'Umanità minacciata nella sua sopravvivenza troverà sempre una soluzione alle sfide che è chiamata a svelare”. Niente di meno certo!



Ciò non toglie che nella situazione presente la soluzione avanzata, l'ipercapitalismo ridipinto con i colori dell'arcobaleno, non è la soluzione, ma la perpetuazione del male stesso... alcuni sintomi – i più evidenti – verranno cancellati dal paesaggio, ma il male continuerà a erodere le società e a divorare la natura condannata a deperire fino all'arrivo del deserto.



In caso contrario, il mercato ribattezzato “sostenibile” continuerà a dispiegare la sua inesorabile logica di crescita esponenziale e di sfruttamento a morte delle “risorse” naturali e umane. In quanto gli scambi che si definiscono “equi”, sono secondo ogni logica destinati a restare relativamente marginali poiché fuori dal circuito delle megastrutture commerciali generatrici di plus values at large. Un'industria della rendita mai a corto di paradossi né d'inventiva che farà prosperare, per esempio, il commercio delle licenze a inquinare, facendo accettare genialmente (e senza storie) l'amara pillola di innumerevoli eco-tasse presenti e a venire. Così, la società eco-totalitaria è in marcia su una strada lastricata di buoni sentimenti.



Il proselitismo della paura



Reinserito nel contesto delle grandi paure tetanizzanti che sono state strumentalizzate fin dall'inizio del millennio (il Terrorismo infinitamente meno pericoloso e assassino del traffico di droga, e, per questo, rivestito da un inquietante carattere di irrazionalità; la pandemia fantasma di influenza suina; la crisi finanziaria che avrà permesso un arricchimento spettacolare, dopo rifinanziamenti pubblici, di stabilimenti finanziari le cui derive colpevoli saranno state la causa di un crack borsiero di grande magnitudo...), il sospetto legittimo che si manifesta e che cresce nei confronti del discorso dominante mostra un divorzio crescente tra l'opinione pubblica – in senso lato – e governi che non tengono in conto questo disaccordo, se non addirittura questo rinnegamento.



A questo proposito, il ruolo svolto dalla stampa è quanto mai detestabile... è stato necessario che una parte della comunità scientifica insorga contro la falsificazione a grande scala delle cifre e dei risultati dell’IPCC (Gruppo consulente intergovernativo sul mutamento climatico) perché si cominci, sotto la pressione di rivelazioni difficili da negare, a fare qualche concessione per poter calmare una certa “rabbia” crescente. Eppure, di fondo, non è cambiato nulla: la finanza verde è operazionale, la “macchina” globalizzante è lanciata e nessuno annuncia un benché minimo passo indietro sulle tasse carbonio...



Quindi, per riassumere, cosa constatiamo? Che avendo scatenato e orchestrato la grande paura del riscaldamento climatico, il Club dei potenti ha appena inventato una nuova forma di economia smaterializzata, il commercio del “carbonio”, un concetto declinato sotto innumerevoli forme e che, in primis, permette di istituire la prima imposta mondiale della storia umana... rendendo imponibili sulla carta, i poveri come i ricchi. Ma questi ultimi, avendo più assi nella manica, si stanno già mettendo d'accordo per far fruttare e truccare la loro quota.



Un buon numero d'economisti (una corporazione che ha spesso un po’ di ritardo sugli eventi, come abbiamo visto nell'autunno 2008!) al momento chiosano sulla desindustrializzazione e il declino della potenza statunitense! Ma questi “specialisti” hanno occhi che non usano per guardare. Viene da chiedersi come facciano a far sembrare di non capire come funziona il mondo nel XXI secolo. Quale concezione arcaica, accademica o strumentale del Nuovo Ordine Mondiale è la loro, per essere incapaci di capire meglio “Copenhagen”?



Poco importa che il broglio sul riscaldamento climatico stia venendo alla luce, finché la contro informazione si trova confinata sulla Rete e nella misura in cui la bugia istituzionalizzata ha la pelle dura e quasi inattaccabile... Intendiamo, con ciò, la “verità” imposta dai media, fan ufficiale del pensiero unico e della neolingua il cui ruolo esclusivo è diffondere propaganda e pubblicità in favore de Il Mondo Nuovo... Due facce di una sola e unica medaglia. Infatti, l'idea di una minaccia catastrofica d'ordine climatico (rinforzata da numerosi episodi recenti: cicloni, maremoti, sismi...) instancabilmente sostenuta e diffusa dalle televisioni, alla fine è arrivata a radicarsi profondamente nell'opinione sedimentandosi su un senso di colpevolezza diffuso.



Bisognerebbe tra l’altro stabilire un parallelismo tra le campagne relative all'imminenza del collasso climatico e quelle legate alla pandemia di influenza suina, dato che le seconde, si sono sviluppate naturalmente sul terreno psicologico creato e preparato dalle prime. Stessa causa, stessi effetti, perché alla fine il “commercio della paura” si rivela essere ad alto rendimento economico e finanziario: mentre l'industria farmaceutica dava segni di cedimento (scadenza dei brevetti per molte molecole destinate da lì poco a passare nell'ambito dei “generici”), l'opportuna pandemia e il suo seguito di timori, è arrivata al punto giusto per rilanciare la macchina. Alleluia!



I “crediti carbonio” un commercio fraudolento



Il commercio del carbonio non risale a ieri, i paesi industrializzati hanno negoziato tra di loro fin dal 1990 una ripartizione delle emissioni di gas serra. All'epoca, l'Unione sovietica aveva ancora un ampio parco industriale e per questo si è vista attribuire un'importante dotazione. L'anno seguente, nel 1991, l'Unione sovietica collassava. Con il crollo della sua produzione, le sue emissioni son velocemente declinate. Ciò non toglie che questi gas non verranno mai considerati come propri dalla Russia e dai suoi ex satelliti dell'Europa orientale, che li fanno intervenire in ogni negoziazione, sotto forma di diritti d'emissione rivenduti al miglior offerente. Così, in virtù del sistema attuale, gli Stati Uniti acquisiscono diritti tra i nuovi membri della NATO in Europa dell'est e si avvalgono in seguito di riduzioni inesistenti. Un altro esempio, se il Regno Unito finanzia la Cina popolare affinché smantelli una centrale al carbone e costruisca una diga idroelettrica, Londra beneficia di questa riduzione di emissioni di carbonio, in ragione delle riduzioni globali previste per ogni paese. Da parte sua, la Cina si avvale anche dei propri nuovi equipaggiamenti idroelettrici e li deduce dalle sue quote d'emissione. Per completare un quadro comunque non esaustivo, evochiamo il processo delle “foreste fittizie” conosciuto con l'acronimo LULUCF (Land Use, Land-Use Change and Forestry) ossia, l'uso delle terre, il cambio di designazione delle terre e la forestazione. Essendo le foreste tanti captori naturali di diossido di carbonio, vengono accordati dei crediti per la loro preservazione. Ora, le multinazionali della forestazione, nipponiche, canadesi, svedesi e finlandesi sono arrivate a introdurre una clausola per la quale la “gestione sostenibile delle foreste” permette loro di sparare a salve senza perdere per questo crediti carbonio legati alla preservazione integrale delle foreste. Così una foresta rasata al suolo non appesantisce il vostro bilancio carbonio!



Notiamo infine che tutte le raccomandazioni scientifiche prendono l'anno 1990 come punto di riferimento del livello pericolosamente elevato da cui devono partire. Quindi, quando parliamo di una riduzione del 40%, vogliamo dire 40% in meno che nel 1990. Ma gli statunitensi hanno deciso – in un momento di inspirazione pubblicitaria –di prendere il 2005 come livello di riferimento. Tutti parlano dei livelli del 1990 tranne loro. Allora, quando Washington promette una riduzione del 17% rispetto al livello del 2005, propone in realtà una riduzione del 4% rispetto al livello del 1990 – molto meno rispetto agli altri paesi ricchi - .

di Jean-Michel Vernochet

Federalismo fiscale

Pochi giornali hanno accennato a quello che era il tema centrale delle scorse amministrative: il federalismo fiscale che verra' attuato a partire dall'insediamento dalle nuove giunte. Poiche' io ne ho accennato, mi si chiede di parlarne piu' in profondita'. Gia', perche' il federalismo fiscale che diviene effettivo con queste nuove giunte e' un cambiamento che pesa qualche cosa come 213 miliardi di euro, ovvero il 12.5% del PIL, lira piu' lira meno.

Che cosa cambia e perche'. Vediamo cosa succede oggi.

Allo stato attuale le regioni gestiscono gia' la spesa, ovvero ricevono soldi in forma di trasferimenti, direttamente da Roma. Perche' un comune riceva dei soldi per un'esigenza straordinaria occorre che un "amico" a Roma riesca a perorare la causa, di fatto , facendo scrivere due righe su qualche leggina tra le migliaia. I trasferimenti ordinati, invece, sono gestiti " pie' di lista", e cioe' considerando che se il servizio che offro ai cittadini e' 10 e vale effettivamente dieci, io chiedo 10 al governo.

Questo produce, di fatto, un'irresponsabilita' globale. Non si tratta di un discorso leghista di "dare soldi ai terroni", ma di un discorso molto piu' ampio.

Esaminiamo la stranezza di base: il 70% del PIL viene prodotto in cinque o sei regioni del paese. Poiche' le attivita' produttive richiedono PIU' servizi, mi aspetto che queste regioni RICEVANO piu' soldi dallo stato. Voglio dire: una regione che ha un capannone per ogni abitante, dovra' provvedere strade adeguate, fognature, burocrazia, catasto, in maniera MAGGIORE che una regione scarsamente industrializzata.

Di conseguenza, il dato che vede le regioni del nord versare piu' di quanto ricevano non e' un dato malato sul piano etnico o sul piano strettamente polico; e'un assurdo in termini di politica economica. Nei paesi con una gestione pubblica piu' efficiente, le zone piu' industrializzate e produttive RICEVONO piu' soldi di quelli che danno. Per una ragione molto semplice: la struttura pubblica, avendo piu' attivita' sul territorio, deve spendere piu' soldi.

Certo, se diciamo "i piu' ricchi danno ai piu' poveri" sembra una cosa sensata, ma non tutto cio' che suona bene e' anche una buona programmazione economica: togliere risorse all'amministrazione pubblica laddove un privato piu' potente e complesso necessita di un supporto migliore e superiore e' follia pura.

La situazione ragionevole e' che, semmai, siano le regioni ch devono fare meno (perche' hanno meno attivita' economiche) a "snellirsi" (quando hai gli sessi tre capannoni delle stesse tre aziende da 25 anni, il catasto puo' anche farlo il fiorista del paese, part time, il sabato pomeriggio) e semmai trasferire soldi.

Il discorso, cioe', dovrebbe essere "cara regione calabria, con il PIL che hai, tredici euro al mese ti bastano (e avanzano) per tutta l'amministrazione pubblica: che ci devi fare, alla fine?".

Il fatto che il dato economico sia stato malato sino ad ora, con i soldi che andavano dalle amministrazioni pubbliche che ne avevano bisogno per sostenere un'economia forte alle regioni che non ne avevano alcun bisogno avendo economie deboli, (unico paese al mondo, l' Italia, ad operare una simile idiozia) fa capire l'impatto economico di questo provvedimento anche senza scendere nei dettagli.

La riforma si snoda su diversi punti.

Innanzitutto, la compartecipazione all' IVA. Aboliti i trasferimenti statali diretti, le regioni potranno prelevare direttamente l' IVA. E qui sorge il primo cambiamento: se vogliono la ciccia, le amministrazioni devono spingere l'economia. Prima, il ritorno dei soldi dell' IVA veniva calcolato con un accrocchio assurdo che teneva conto dei dati istat nazionali, con il risultato che se il veneto aveva molto IVA, la Basilicata riceveva piu' soldi. Da queste nuove amministrazioni in poi, le regioni andranno a pescare dall' IVA locale, il che significa che le regioni che aiutano di piu' il PIL (poi vedremo come possano farlo adesso) otterranno piu' gettito.

Per agevolare il PIL, le regioni possono fare due cose. La prima e' modulare l'addizionale Irpef che hanno a disposizione. Una regione vastamente industriale come l' Emilia , con una componente turistica di riviera, potrebbe decidere di privilegiare i settori che "tirano" di piu' , sgravando, per applicare addizionali a tutti gli altri settori dell'economia.

Questo ha due effetti: innanzitutto, la possibilita' di una politica economica locale, svincolata dalle decisioni di Roma e dal rigido controllo UE, la seconda e' che inizia una vera e propria concorrenza fiscale.

Avrete sentito dire che le nostre aziende "non fanno sistema": del resto, e' impossibile fare sistema se non si creano dei forti comparti industriali con un'economia di scala. Ora, supponiamo che una regione con molto commercio e molta moda e servizi avanzati (Lombardia) decida di sgravare questi settori: lentamente ci sara' una migrazione di queste aziende verso Milano, e le altre aziende (gravate) si muoveranno verso un'altra regione, che magari ha un trattamento fiscale migliore.

Questo produrra' innanzitutto i comparti geografici, e in secondo luogo una razionalizzazione delle PMI.

Il secondo punto, molto simile, e' la regionalizzazione dell' IRAP, che potra' essere modulato allo stesso modo per favorire un settore che magari e' un settore di punta, oppure per dare qualche respiro a qualche settore in crisi.

Ragionare in termini di bilancio (ricevo piu' soldi o meno) non serve a molto: il problema non e' quanto ricevi e come (anche se, come dico, spogliare le amministrazioni pubbliche delle regioni piu' performanti NON e' stata una genialata) , ma il meccanismo fiscale e distributivo attraverso il quale ricevi.

In secondo luogo, cambia anche l'attribuzione dei versamenti. Sinora si sono versati seguendo la regola del costo storico, ovvero tenendo in considerazione il fatto che se una regione consuma molto quest'anno, deve ricevere molto anche l'anno prossimo. Da questa riforma in poi, il costo del rimborso viene calcolato sulla base di un costo standard.

Costo standard significa che si assume che i servizi costino allo stesso modo su tutto il territorio, e le regioni vengono finanziate in ragione del costo standard a seconda della quantita' di servizi che erogano. Questo fa si' che le regioni abbiano tutto l'interesse a fare efficienza, e a lasciare che nasca quel comparto economico di aziende specializzate in servizi agli enti pubblici, che e' tipico di tutti gli altri paesi.

Ultima novita' e' il finanziamento dei comuni. I comuni dovranno colpire, e colpire molto, le rendite immobiliari. L'ipotesi piu' diffusa a riguardo del loro finanziamento e' la cedolare sugli affitti. Essa va a sostituire la fine dell' ICI sulla prima casa (un assurdo, la prima casa e' un diritto) e colpisce le case in affitto. Si tratta, cioe', di mettere i comuni nella necessita' di censire le case in affitto e le case sfitte : oggi questa cedolare e' affidata allo stato, che non puo' fare una vera e propria lotta al nero, ne' gli conviene farlo. I comuni, invece, le cui casse sono in crisi gia' oggi, avranno tutta la convenienza a farlo.

Quando avverra' questo?

A giugno 2010 si dovra' presentare la prima relazione al parlamento con l'esito delle simulazioni al calcolatore, in modo da evitare che ci siano effetti catastrofici legati a situazioni particolari (immaginate Venezia e il problema degli affitti). A novembre si saranno i decreti attuativi veri e proprio.

E' uguale per tutti? No. Dipende anche da quanti settori le regioni chiedono di "deregolare".La regione Lombardia ha chiesto di deregolare quasi tutto, probabilmente seguiranno il veneto e il piemonte. Probabilmente, per facilitare ruberie, la regione emilia chiedera' meno, ma probabilmente dovra' cambiare idea in fretta per via del discorso della concorrenza fiscale.

Probabilmente alcune regioni del sud (dipende quali: Vendola e' tra i primi a volere piu' autonomia) non richiederanno subito la deregulation, perche' essenzialmente sono carenti delle infrastrutture elettroniche per gestirla. La riforma del catasto, per esempio, richiede un catasto informatizzato. Idem la riforma dell'imposta di registro. Ovviamente, le regioni ed i comuni piu' informatizzati potranno permettersi di gestire questi settori molto prima. Gli altri rimarranno indietro, come e' giusto che sia: si premia il primo della classe, si boccia l'ultimo. Sinora invece si sono tassati i primi della classe per premiare gli ultimi.

Insomma, inizia una bella dose di meritocrazia su base regionale: le regioni che fanno di piu' per il paese in termini di PIL saranno premiate anziche' punite come avveniva prima, mentre quelle che fanno meno per il paese in termini di PIL inizieranno a venire punite, anziche' premiate come avveniva prima.

Siccome la cifra totale in ballo e' di 215 miliardi di euro,di cui circa 20 sonoversamenti diretti stato-regioni, di botto il provvedimento di novembre avra' l'impatto di una finanziaria abbastanza "corposa", e nel corso del 2011 arrivera' l'impatto del resto, anche se per via delle lentezze attuative credo si vedra' il tutto al lavoro solo nel 2012.

Di certo e' finita un'era.

Potete essere piu' o meno critici verso la mia esposizione, ovviamente. Mettiamola cosi': e' sempre meglio di quella che ne fa Repubblica. Che fa il suo dovere di informare. Dicendovi un cazzo di niente.

By Uriel

6.4.10

Parigi festeggia in piazza.L’acqua torna pubblica.

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Sconfitte le multinazionali Veolia e Suez, l’amministrazione comunale celebra il ritorno ad una gestione municipalizzata: prezzi più bassi e maggiore qualità. Ma nel resto della Francia impazzano i privati.

Mille caraffe d’acqua al giorno distribuite nelle piazze cittadine, corredate da bicchieri di plastica riciclabile e dalla soddisfazione di una certezza immutabile: «L’acqua del rubinetto è fino a mille volte più ecologica dell’acqua in bottiglia». A sostenerlo non è un gruppo di ecoestremisti né il solito venditore di buone intenzioni ma addirittura la giunta comunale di Parigi.

La distribuzione di acqua fresca nella capitale francese fa il paio con i manifesti affissi ovunque dall’azienda municipalizzata Eau de Paris, per informare i cittadini che dal 1 gennaio scorso il Comune ha rilevato la gestione dell’acqua potabile, strappandola alle due potenti multinazionali leader mondiali del settore, le francesi Veolia del gruppo Vivendi e Suez Lyonnaise des eaux. Obiettivo dichiarato, secondo Anne Le Strat, assistente al Comune e direttrice della municipalizzata, «offrire ai parigini acqua di migliore qualità al miglior costo possibile», e far dimenticare il 260 per cento di rincaro dal 1985 dovuto alla gestione privata.

Il sindaco socialista Bertrand Delanoë, uscito con una solida maggioranza dalle amministrative del marzo 2008, non ha perso l’occasione di festeggiare in piazza il nuovo corso degustando un bicchiere sulla piazza del Comune insieme alla sua assistente Le Strat e alla signora Danielle Mitterrand, vedova dell’ex presidente della Repubblica e direttrice della fondazione France Libertés che milita per «il riconoscimento dell’acqua come diritto umano fondamentale e bene comune dell’umanità».

Nella capitale si consumano in media 550mila mc di acqua al giorno che, trasformati in euro, rappresentano un giro d’affari gigantesco. La municipalizzata applica tariffe pari a 2,93 euro al metro cubo, attualmente le più basse di Francia. Nel resto del Paese impazza invece la gestione privata che controlla i benefici di quasi 300 litri di consumo giornaliero per persona. Anche pochi rispetto ai 380 giornalieri in Italia o ai quasi 600 negli Usa, secondo i dati diffusi nel 2006 dal Programma di sviluppo dell’Onu.

Le multinazionali della distribuzione idrica sono tra le più potenti al mondo: ma la giunta parigina di centrosinistra non si è lasciata piegare ed è tornata alla gestione pubblica, incassando forti critiche da parte di André Santini, ex ministro in governi di centrodestra e attuale presidente della società Sedif, che gestisce la rete idrica in nome e per conto di 144 Comuni intorno alla capitale. Il prossimo giugno Santini aggiudicherà la gara per la concessione ai privati della distribuzione. Unici concorrenti rimasti: Veolia e Suez.

Vinta la scommessa della municipalizzazione, Parigi ora deve lottare contro il Pet, la malefica bottiglia di plastica che, benché riciclabile, in mancanza della giusta catena di smaltimento dei rifiuti invade senza posa terre e mari. L’acqua che esce dal rubinetto della cucina permette di risparmiare 10 kg di rifiuti plastici all’anno per persona perché «è consegnata a domicilio, senza bisogno d’imballaggio», sottolineano al Comune.

Inoltre è «in media 300 volte più economica di quella venduta in bottiglia» e spesso di migliore qualità rispetto alle più pubblicizzate tra le minerali da supermercato, come attestano quintali di saggi scientifici. Questo perché gli acquedotti pubblici, salvo eccezioni, attingono da falde profonde e sorgenti purissime, e hanno l’obbligo di fornire ai consumatori acqua sicura, rispondente ai severi parametri fissati dalle normative comunitarie.

In Francia sono ben 56 i criteri da rispettare, assicurati attraverso continui test di qualità. «L’acqua potabile oggi è l’alimento più controllato», assicura Nathalie Karpel, direttrice al laboratorio di chimica e microbiologie di Poitiers. La gara tra il rubinetto e la bottiglia, dunque, è vinta senza dubbio dal primo, e di larga misura. Ma da quando nel 1992 alla Conferenza di Dublino l’acqua fu dichiarata “bene commerciale”, la gente si è fatta affascinare dal mito oligominerale in bottiglia creato dalla pubblicità.

Lo scorso febbraio, dieci anni dopo la rivolta di Cochabamba in Bolivia, la rete mondiale Reclaiming Public Water ha tenuto un incontro al quale hanno partecipato militanti e amministratori provenienti da tutto il mondo per fare il punto sulla lotta alla privatizzazione. Presente anche l’assistente al comune di Parigi Anne Le Strat per spiegare come, con la semplice volontà politica, Eau de Paris abbia vinto la sua battaglia contro le grandi multinazionali.

4.4.10

Il divario tecnologico nell'economia globale


Etleboro


La teoria del libero scambio, da David Ricardo al modello Heckscher-Ohlin-Samuelson, afferma che i flussi commerciali sono determinati dalle differenze nei costi dei fattori produttivi, lavoro e capitale, nel senso che un Paese si specializza nell’esportazione dei beni che riesce a produrre a costi più bassi. Applicata all’economia globale, legittima il sottosviluppo, perché confina il Terzo Mondo al ruolo di fornitore di materie prime e manodopera a basso costo, e giustifica lo sfruttamento neoimperialista nella misura in cui perpetua quei dislivelli, nei salari e nei tassi interessi, che fanno fluire gli investimenti dove è possibile lucrare maggiori profitti, senza riguardo per il diritto dei popoli all’autosufficienza alimentare e alla sovranità sulle risorse della propria terra.
Ne deriva un capitalismo predatore, in cui la povertà di alcune aree è funzionale alla ricchezza di altre, nonostante i profeti del libero scambio sostengano che i flussi commerciali, generati dalla differenza nel costo dei fattori produttivi, siano fonte di ricchezza per tutte le nazioni. A partire dagli anni sessanta, mentre il pensiero terzomondista d’ispirazione marxista critica lo sfruttamento fondato sul libero scambio, nei think tank del capitalismo in corso di globalizzazione s’avverte l’esigenza di fornire analisi più credibili sulla dinamica dei flussi commerciali. A spiegare i vantaggi dell’interscambio - tra economie avanzate in continua espansione ed economie arretrate, costrette a specializzarsi nella produzione di materie prime agricole e minerarie - interviene Michael Posner (1961) con la teoria del divario tecnologico, secondo cui la diffusione del progresso tecnologico determina i flussi commerciali indipendentemente dalla dotazione dei fattori produttivi. All’origine c’è l’innovazione come fattore di successo. Le imprese, per vincere il conflitto competitivo sul mercato interno, sviluppano nuovi prodotti e li esportano sui mercati esteri fino al momento in cui il nuovo prodotto non venga imitato localmente. In tal caso l’interscambio non è determinato dalla dotazione di fattori produttivi, che può anche essere identica nei Paesi interessati, ma dal carattere di novità dei beni scambiati e dalla diffusione dell’innovazione, che è sempre superiore nel Paese esportatore. In tale modello due tipologie di ritardo assumono particolare rilevanza. Il primo è il ritardo nella domanda estera, che misura il periodo intercorrente tra l’introduzione del nuovo prodotto nel Paese esportatore e l’inizio del suo consumo nel Paese importatore. Il secondo è il ritardo nell’imitazione, che indica l’intervallo temporale tra l’inizio della produzione nel Paese innovatore e l’inizio della produzione nel Paese imitatore, potendo l’imitazione avvenire grazie alla ricerca scientifica sviluppata localmente o mediante l’acquisto di brevetti e licenze di produzione. La differenza tra i due ritardi misura il periodo di tempo in cui il Paese innovatore ed esportatore conserverà i vantaggi del divario tecnologico rispetto al Paese importatore ed imitatore. Viene tuttavia precisato che nessuna particolare innovazione tende a produrre un flusso costante di esportazioni, ad eccezione dei casi in cui un know-how difficilmente trasferibile determini un lungo ritardo nell’imitazione. Soltanto un flusso di innovazioni, costante nel tempo e diffuso in diversi settori industriali, può generare uno stabile volume di esportazioni. A loro volta, i Paesi meno attivi nel processo di innovazione possono colmare il deficit nell’interscambio di nuovi beni mediante l’esportazione di prodotti tradizionali. In sostanza la teoria di Posner cerca di dimostrare l’importanza dell’innovazione tecnologica come fattore competitivo in generale, qualunque siano l’estensione del mercato e la dimensione dell’impresa, ma incontra diversi limiti. In primo luogo non spiega perché, sul mercato interno del Paese innovatore, l’innovazione si concentri in alcuni settori piuttosto che in altri. In secondo luogo non rivela perché, sul mercato mondiale, alcuni Paesi siano innovatori ed altri imitatori. L’unica plausibile spiegazione può ricollegarsi alla decisione di investire risorse nella ricerca e sviluppo. Ma ciò significa affermare che, ragionando in termini di commercio internazionale, sono esportatori di nuovi prodotti soltanto i Paesi ricchi, mentre ragionando in termini di interscambio tra settori, sono innovatori solo i settori ad alta intensità di capitale. Questa circostanza contraddice l’intero schema interpretativo di Posner, perché, mentre nei suoi presupposti sottovaluta l’incidenza dei fattori produttivi, nelle sue conclusioni valorizza un elemento, l’innovazione tecnologica, che dipende proprio dalla differente dotazione di un fattore produttivo: il capitale. Le lacune del modello Posner sono colmate dalla teoria del ciclo del prodotto, sviluppata in particolare da Raymond Vernon (1966), che spiega l’interscambio di merci e capitali descrivendo la genesi delle innovazioni e le ragioni che determinano il loro graduale trasferimento dal Paese innovatore ad altri mercati. Il modello presuppone che ciascun bene attraversi fasi successive di standardizzazione. Alcuni elementi - l’impiego dei fattori produttivi, i metodi di lavorazione, il volume delle vendite, il prezzo di mercato - assumono una diversa rilevanza man mano che si passa dalla fase iniziale a quella di maturità del prodotto. L’innovazione di processo e di prodotto favorisce l’esportazione – interscambio di prodotti finiti – o la dislocazione produttiva – interscambio di fattori produttivi, in particolare capitale e risorse naturali. La standardizzazione delle tecnologie favorisce l’inizio della produzione altrove, senza che siano necessarie ingenti spese per la ricerca e sviluppo. Dovunque i nuovi prodotti vengono dapprima lanciati sul mercato interno e poi esportati. Le economie nazionali sono l’ambiente che genera l’innovazione tecnologica e sperimenta, in via prioritaria, la recettività delle sue applicazioni. Una versione alternativa della teoria del ciclo del prodotto viene formulata da S.Hirsch (1967). Per identificare quali sistemi presentano vantaggi comparati ad ogni stadio del ciclo di vita del prodotto, egli divide i vari Paesi in tre categorie - in via di sviluppo, sviluppati, sviluppati ma di piccole dimensioni - ed i fattori produttivi, escludendo le risorse naturali, in cinque gruppi - capitale, lavoro non qualificato, management, conoscenze tecnologiche, economie esterne. La principale discriminante è l’intensità di capitale investito in tecnologia e formazione manageriale. Il mercato interno mantiene la sua fondamentale importanza, sia come sistema di infrastrutture che stimolano la diffusione dell’innovazione, sia come ambiente capace di assorbire l’iniziale offerta di nuove merci. Analizzando la disponibilità dei fattori elencati nei diversi sistemi, Hirsch conclude che i Paesi in via di sviluppo godono di un vantaggio comparato nei prodotti maturi, che richiedono un uso intensivo di lavoro non qualificato. Invece i Paesi sviluppati sono avvantaggiati sia nei beni nuovi che in quelli nuovi ma non ancora standardizzati, in virtù dell’ampia dotazione di capitale, capacità manageriali ed economie esterne. Infine i Paesi sviluppati ma di piccole dimensioni sono specificamente adatti alla sperimentazione di prodotti nuovi, perché hanno grande disponibilità di manodopera qualificata a costi comparativamente più bassi. Il modello Poster-Vernon-Hirsch, idoneo a spiegare l’espansione multinazionale delle aziende occidentali nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale, comincia a perdere efficacia quando, nell’insieme Paesi in via di sviluppo, emergono realtà come i New Industrialized Countries (NIC) ed in particolare le cosiddette tigri asiatiche (Corea del Sud, Filippine, Indonesia, Malesia, Thailandia). Attraendo investimenti esteri diretti - con normative fiscali, ambientali e sindacali particolarmente favorevoli alle multinazionali straniere - tali sistemi si specializzano nella manifattura di prodotti o semilavorati destinati non ai rispettivi mercati interni - come presupponevano sia Vernon che Hirsch - ma a mercati diversi, compreso il mercato interno della casamadre. A trainare la crescita, non sono lo scambio di merci e/o fattori produttivi tra economie nazionali, entro i cui confini ciascuna impresa circoscrive una catena del valore ininterrotta. A gonfiare i dati sul commercio mondiale, sono il flusso di beni tra società dello stesso gruppo transnazionale, o tra queste e i loro partner locali. Nella competizione globale, enfatizzare l’innovazione tecnologica piuttosto che la manodopera a basso costo come segreto del successo, è un falso argomento, usato dagli stessi apologeti della globalizzazione, per sviare i discorsi dalla dinamica dell’accumulazione di capitale come fattore competitivo e sistema di sfruttamento, adombrando il ruolo delle banche come centri di potere economico e politico, dal momento che sono esse che creano moneta e la trasformano in capitale, in sostanziale autonomia rispetto ai governi.

Raffaele Ragni

2.4.10

Il web sostituirà i partiti?

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L'opinione di Donatella Campus, docente di scienza politica

Forse è dai tempi d Tangentopoli che la professione del politico non scendeva così in basso nell'indice di gradimento. Solo che nel '92, a differenza di oggi, c'era un Paese capace di indignarsi, sensibile alla questione morale, almeno in parte disponibile a concedere qualche chance alla rigenerazione della politica. Quasi vent'anni dopo rimane soltanto l'antipolitica. L'astensionismo che stavolta ha raggiunto livelli da record per questo paese, è un segnale grosso come una montagna. Il distacco, la disaffezione, anzi l'insofferenza da saturazione per la "casta politica" sono diventati cultura di massa.

Ma anche chi non si astiene e decide di votare, sceglie in maggioranza di dare il proprio voto a forze che hanno l'apparenza di non essere partiti "tradizionali". A forze e personaggi che, a torto o a ragione, sono percepiti dall'opinione pubblica come estranei al "giro" della politica. Come la Lega, vista come un partito dalle mani pulite, al di fuori dei giochi, non contaminata dal potere. Anche se è al governo nazionale e in quelli locali. Anche se ormai sono lontani i tempi in cui era un movimento e se, nel frattempo, ha sfornato un ceto politico a tutti gli effetti, un esercito di parlamentari, ministri e amministratori locali. La Lega vince perché i suoi militanti stanno sul territorio e tanto basta a distinguerli dai politicanti di professione, a farli apparire "gente come noi", "del popolo". Analogo discorso si potrebbe fare per l'Italia dei Valori, cresciuta sull'onda dell'indignazione per la casta politica, guidata, non a caso, da un leader come Di Pietro prestato alla politica dalla magistratura. Anche a sinistra - è il caso del vendolismo - si vince con l'immagine di un leader che per ricandidarsi ha dovuto lottare contro gli intrighi di potere dall'alto. A prevalere, qui e là, sono insomma le varianti dell'unica narrazione oggi vincente, che individua nella politica e nel suo sistema il Vecchio da abbattere in nome del Nuovo.

Ma il caso più eclatante di antipolitica che fa politica - e con discreto successo - è quella del Movimento cinque stelle, la lista targata Beppe Grillo che ha raccolto l'1,7 per cento su base nazionale, con picchi sorprendenti come il quattro per cento in Piemonte e il sette in Emilia-Romagna. Un fungo spuntato dal nulla, a detta di molti opinionisti. Un fenomeno nato dalla Rete, nei blog e nei social network. Fino a ieri l'altro Giovanni Favia, capolista del movimento grillino in in terra emiliana, era uno sconosciuto e nessuno avrebbe potuto prevederne il successo nei panni dell'outsider in una regione in cui il tradizionale sistema di potere locale del Pd sembra privo di alternative.

Il "grillismo" è stato definito un movimento antipolitico. Non tanto perché chi vi si riconosce sia privo di senso civico, quanto perché esso raccoglie gli umori di una parte di elettorato sensibile sui temi etici e ambientali, ma indisponibile a votare uno qualunque dei partiti riconducibile al "sistema" politico. Al punto da presentarsi come un modo "nuovo" di fare politica che sostituirà definitivamente i vecchi partiti.

«Siamo la Lega del terzo millennio. Noi e loro siamo gli unici radicati sul territorio», ha detto Beppe Grillo nelle interviste a caldo dopo i risultati elettorali. E' il web, appunto, la nuova organizzazione che per i grillini cambierà la politica. «C'è la rete... noi siamo il contrario di tutti i partiti. Lo abbiamo visto tutti come sono stati scelti i candidati alle regionali. La gente è stata tenuta fuori. I nostri candidati sono specialisti scelti dalla rete. E su internet ogni persona vale uno, io come qualsiasi altro iscritto al Movimento Cinque Stelle. La rete è democrazia e trasparenza».

Internet, si dice, ha cambiato tutto, ha trasformato il modo in cui le persone si informano e comunicano tra loro, senza che i partiti se ne accorgessero.Il web è il Nuovo che avanza. La Rete, i blog, i social network sono le nuove autostrade digitali della conoscenza lungo le quali, ogni giorno, migliaia di persone si scambiano informazioni e formano le loro opinoni in autonomia e senza rapporti di gerarchia tra alto e basso. Perciò il vecchio sistema della politica - è la conclusione del ragionamento - non può continuare come prima. C'è chi vede in Internet, in virtù di questa previsione, «la panacea del male che attanaglia molte delle democrazie contemporanee, ovvero apatia, disaffezione nei confronti della politica, scarsa partecipazione attraverso i canali convenzionali come il voto e l'iscrizione a partiti e associazioni». Della questione si è occupata Donatella Campus, docente di scienza politica, nel saggio Comunicazione politica. Le nuove frontiere (Laterza, pp. 144, euro 16). «Internet riflette lo stato di cose esistente. Non direi perciò che l'uso politico di internet sia un sintomo di antipolitica. Certo, l'antipolitica c'è, in Italia c'è da sempre. Sono reduce da un convegno in cui si parlava proprio di Achille Lauro come prototipo di Berlusconi. E' chiaro che anche in internet possiamo trovare manifestazioni di antipolitica. Ma non è internet che le produce. Da voce, possiamo dire, a un certo tipo di pubblico che è composto prevalentemente da persone giovani, soprattutto nel caso dell'Italia. Se queste persone hanno un sentimento di insofferenza nei confronti della politica lo esprimono lì. Internet ha offerto oltre al menu di canali di partecipazione già esistenti, un ulteriore modo di partecipare. Ma questo non significa dire che sarà l panacea di tutti i mali. E'solo un'opportunità».
Fino a che punto però la discussione nei blog e nei forum può sostituire i canali tradizionali di partecipazione alla politica? Internet è davvero un'alternativa ai partiti - che tra l'altro soffrono di crisi di iscrizioni, di militanza e di radicamento nei territori? «Internet sta cambiando in prospettiva il rapporto tra partito e simpatizzanti. Forse in Italia lo vediamo meno che altrove. Ma il caso Obama e anche quello di Ségolène Royal in Francia internet ha cambiato la modalità di selezione del candidato alla presidenza. Però, secondo me, la rete non sostituirà i partiti, ma li andrà a integrare. Il che significa che i partiti dovranno evolversi fino a considerare internet come una propria manifestazione naturale. Mi spiego: internet rappresenterà il feedback che cambierà la forma organizzativa dei partiti. Ne dovranno tenere conto per sopravvivere. Non solo come strumento per comunicare durante le campagne elettorali, ma come modello di relazione più paritario. Un partito strutturato dall'alto verso il basso farà più fatica a utilizzarlo.

Il Pdl, ad esempio, non è un partito che va molto su internet. Non ha neppure interesse a farlo. I partiti del domani dovranno, da un lato, riscoprire i territori, e dall'altro, imparare a usare internet. Sono entrambi un tipo di relazione orizzontale, porta a porta. Il momento mediatico puro, la televisione, è destinato a essere sorpassato. Per ora funziona ancora bene, ma è un colpo di coda. Sono processi lunghi». Però c'è anche il rischio che attraverso la rete l'approccio alla politica non avvenga più nello spazio sociale della piazza, nella sfera delle relazioni concrete, ma nella dimensione privatistica del proprio schermo. «Internet dà la possibilità di partecipare alla politica anche senza scendere in piazza, rimanendo seduto davanti allo schermo. Vero. Però a volte funziona anche come passaggio intermedio. La comunicazione prende forma in rete e poi esce. Non è scontato insomma che il web produrrà un'atomizzazione. Se è per questo, la televisione ha diminuito le capacità associative e partecipative - come diceva Robert Putnam. Uno se ne può stare chiuso in casa a guardare la tv. Al confronto internet è un luogo di potenzialità. I segmenti di pubblico si possono anche mettere assieme. Non si può dire che internet sia il motore primario della segmentazione, piuttosto quest'ultima è riflesso di un fenomeno più complessivo». Un fenomeno presente soprattutto nei blog dove a discutere degli stessi temi si ritrovano spesso persone che la pensano allo stesso modo. Simile col simile. Ma così non passa una visione frammentata, parziale della realtà? «Questo accade, ma non è scontato. La frammentazione esiste, ognuno segue il filo dei propri interessi. Anche qui, però, internet segue il trend».
di Tonino Bucci

La Storia non si dimentica, si subisce. Il caso della Lega

In tutta la gloriosa guerra garibaldina per la "liberazione delle due Sicilie" (... che suona come l'esportazione della democrazia dell'America di Bush in Iraq ... cioè una palla confezionata su misura per i tanti idioti incapaci di pensare in proprio ...), in tutte le mitiche battaglie (Calatafimi, Milazzo, etc..) in cui i "liberatori" si trovarono al cospetto dei difensori borbonici, questi ultimi, un moderno esercito di centomila uomini, subirono otto morti e diciotto feriti ....

Si, avete capito bene: otto morti e diciotto feriti in tutti quegli scontri che i libri di storia ci raccontano essere stati all'ultimo sangue ...

Nelle battaglie vere (ad esempio a Solferino e San Martino), i morti si contavano a migliaia ... i campi restavano allagati dal sangue dei caduti per giorni e, proprio a San Martino, fu tale l'orrore per i numerosissimi morti e feriti, che si decise di istituire la Croce Rossa: un organismo super-partes che si incaricasse delle migliaia di caduti.

Non nelle epiche battaglie garibaldine ... li si vinceva a tavolino ...

Voglio dire che, se uno non è proprio completamente cretino, capisce da solo che l'esercito borbonico non ha combattuto ... e quando i garibaldini le stavano "per prendere", i generali borbonici facevano suonare le trombe della ritirata ... e Garibaldi vinceva ...

La barzelletta che circolava, difatti, era che più di Garibaldi, poterono i trombettieri borbonici a sconfiggere l'esercito di Francesco II.

Perché, dunque, i generali "sudisti" preferirono "perdere"?

Per soldi ... per promesse di futuri benefici ... per mafia.

Cavour, uno spericolato intrallazzatore e speculatore di Borsa, mandò i suoi agenti segreti a ... trattare con la nascente mafia ... iniziando una pratica che, da allora, non si è mai fermata: appoggiarsi alla criminalità organizzata del Sud per "acquisire" consenso e potere da spendere al Nord (basti pensare ai nostri ultimi 17 anni, dal 1993 ad oggi).

E grazie alle generose "provviste" di denaro messe a disposizioni dagli inglesi e dai massoni, gli agenti di Cavour comprarono quasi tutti i generali "nemici" ... che consentirono a Garibaldi di passare alla storia come un grande condottiero ... lui, un ladro di cavalli che portava i capelli lunghi per nascondere l'orecchio mozzato in Sud America ... dalla polizia locale che l'aveva preso con le mani nel sacco (a rubare cavalli) ...

Ma com'era il Sud prima dell'invasione del 1960?

Alla fiera di Parigi del 1856, il regno delle due Sicilie fu "riconosciuto" essere la terza "nazione" più ricca del mondo ... già, una "nazione" ... da ben 14 secoli. Dalla caduta dell'Impero romano, gli stati del Sud Italia erano "nazione" ... e insieme all'Inghilterra erano la più antica "nazione" europea. La prima "costituzione democratica" del mondo, fu promulgata proprio nella "nazione Sud Italia".

Il centro-nord Italia, invece, nello stesso periodo, era stato sempre frantumato in piccoli staterelli.

Napoli era la seconda città europea per abitanti ed eccelleva nelle arti, nell'industria, nella marina (la marina mercantile era la seconda al mondo e quella militare la terza) e ... nell'economia.

A Napoli nacque la prima scuola Universitaria di economia del mondo ... la famosa scuola napoletana che avrebbe influenzato l'intero pensiero economico mondiale.

La Borsa delle merci era la seconda in Europa e quella valori la terza ... e già allora, i nobili si "occupavano" di investimenti e trading ...

I titoli di stato del Sud quotavano 120 (rispetto al valore nominale di 100), mentre quelli piemontesi 70 (sempre rispetto ad un nominale di 100) ... e questo, meglio di ogni altro indicatore, la dice lunga sullo stato dell'economia e della finanza al Sud ed al Nord.

Le tasse al Sud erano le più basse d'Europa (20% in meno di quelle francesi e 30% in meno delle inglesi), mentre al nord, i Savoia imponevano tasse altissime (le più alte d'Europa) per finanziare le tante guerre perse, e per potere ... rubare di più (forse non loro direttamente, ma certamente i loro "cortigiani" e "soci").

Ma sapevano i Borboni dell'imminente invasione?

Certo, non erano mica cretini ... tutti lo sapevano: la notizia circolava da tempo anche sui giornali.

Mandarono i loro ambasciatori a chiedere aiuto in tutta Europa e ottennero promesse, impegni, alleanze ... ma nessuno si mosse quando Garibaldi sbarcò a Marsala ... anzi, si mossero gli inglesi ... ma per aiutare gli "italiani" del Nord.

E non solo gli inglesi: tra le file degli "invasori" si contavano migliaia di ungheresi, boemi, marocchini, serbi, francesi, spagnoli, olandesi ... c'era pure qualche scandinavo ... mancavano solo gli ... italiani ... se si escludono gli avanzi di galera al seguito di Garibaldi.

Erano tutti li per inseguire il miraggio della ricchezza ... saccheggiavano tutto ciò su cui potevano mettere le mani ... portavano via anche le posate ... i piatti ... le lenzuola. E naturalmente stupravano le donne.

Il miraggio dell'Unità d'Italia, se c'era, interessava una piccola minoranza di "romantici" ... tutti gli altri erano volgari ladri.

Francesco II, capì subito che era tutto perso quando la sua flotta, la terza d'Europa, non "fermò" i tre piroscafi garibaldini.

E perché sbarcarono a Marsala?

Perché a Marsala abitavano più inglesi che siciliani: gli piaceva quel vino carico di zuccheri arricchiti dal sole, e adoravano i piccioli che facevano con il commercio di zolfo di cui quella terra era ricca.

I Borboni gli avevano fatto causa (perché volevano fargli "pagare" parte dei profitti) ... loro la vinsero e se la legarono al dito ...

Quando Cavour gli comunicò che il Piemonte non poteva rimborsare i titoli del debito pubblico in mano inglese ... lo incoraggiarono a "impadronirsi" dell'oro dei Borboni (un po come hanno fatto le Banche italiane con Callisto Tanzi). E per essere certi che i Savoia non facessero casini (avevano perso tutte le guerre e, quindi, non davano molto affidamento) misero la loro flotta a disposizione, fornirono il denaro necessario per corrompere i generali borbonici e si incaricarono di arruolare "schiere" di avventurieri in ogni angolo d'Europa.

Francesco II, dunque, sapeva ... tutti lo sapevano ... anche se i cugini "piemontesi" (i Borboni ed i Savoia erano cugini) negarono fino all'ultimo di essere coinvolti in quella "vile aggressione" (furono queste le parole testuali usate da Vittorio Emanuele II).

Prima del 1860, dunque, il tenore di vita al Sud era molto più alto del Nord ... le industrie meridionali erano all'avanguardia in molti settori e facevano una concorrenza spietata (e vincente) a quelle settentrionali.

Vinte a tavolino le "epiche" battaglie garibaldine e fatta l'Unita d'Italia, finalmente i Savoia si manifestarono mandando i loro "sbirri" a "civilizzare" il meridione ...

Le fabbriche furono distrutte ... gli operai fucilati ... e tutto ciò che c'era di buono ed all'avanguardia fu trasportato al Nord. In un colpo solo si eliminarono dei temibili concorrenti e ci si appropriò delle loro ricchezze materiali ed intellettuali.

L'industria del Nord, che non era mai riuscita a decollare, finalmente decollò.

Come vi sembra questa "verità storica" al cospetto della "minchiata" che è circolata negli ultimi 150 anni che il Sud è indietro perché i meridionali non sanno fare un cazzo ...?? Quante volte avete sentito questa stronzata (da bambini mongoloidi) che la miseria del Sud risale addirittura alla caduta dell'Impero romano ...??

La verità documentata è che il Sud è stato prima derubato e poi (per evitare possibili concorrenze) mantenuto DELIBERATAMENTE in condizione di inferiorità ...

Nonostante le rapine ... il milione di morti ... i cinque milioni di emigrati ... ancora 30 anni dopo l'Unità (quindi nel 1890) il tenore di vita nel Sud era allo stesso livello del Nord (ricordiamoci che prima del 1860 era nettamente superiore) ...

Solo nel 1920 i "nordisti" riuscirono a fare arretrare il Sud del 15% (rispetto al nord); poi arrivò Mussolini e compì il capolavoro ... quel poco di Industria che era rimasta lo trasferì al Nord ... e ai meridionali promise un ... "posto al sole" in Africa.

La differenza tra Nord e Sud si amplificò ... e così rimase fino ai giorni nostri.

Ora capitemi bene: a tutti quelli (mi riferisco ai leghisti dichiarati e a quelli "in pectore") che vanno ripetendo il famoso ritornello che i meridionali sono "geneticamente" inferiori ... che sanno solo lamentarsi e che non sanno darsi da fare ... si può solo rispondere che l'unica cosa che è geneticamente certa ... è la loro ignoranza.

Hanno impiegato gli ultimi 150 anni a coltivarla e nutrirla e, oggi, primeggiano a livello mondiale.

Un meridionale serio ed intelligente, con tremila anni di patrimonio culturale in dotazione genetica, non si "berrebbe" mai le minchiate dei 100 000 fucili bergamaschi pronti a sparare, delle sacre acque del Po dove ci sarebbe lo spirito (celtico?) del Nord, e tutto l'armamentario di supercazzole che solo una grande ignoranza può alimentare e nutrire ... li occorre la stupidità di chi, da secoli, non è abituato a pensare, né a leggere ... men che meno a ragionare.

Andatevi a leggere cosa gli austriaci pensavano dei sudditi "lombardi": ... "chiagni e fotti" ... eterni piagnoni, lavativi, ladri ed inaffidabili ... Esattamente ciò che i lombardi oggi pensano degli extracomunitari.

Si può fare una stima (approssimata per difetto) della "rapina" ai danni del Sud?

Certo: l'oro che i "piemontesi" prelevarono dalle Banche del Sud ammontava a circa 1500 miliardi di euro di oggi. I beni confiscati (immobili, terreni, macchinari, etc..) circa 1300 miliardi di euro e gli altri beni immateriali (brevetti, know how, etc..) circa 200 miliardi di euro. Totale: 3000 miliardi di euro; il doppio del Pil italiano odierno e poco meno del doppio del debito pubblico.

In parole povere: i piemontesi che erano con le pezze al culo come lo Stato italiano di oggi (debito pubblico superiore al Pil), ripianarono quel loro immenso debito e gli restarono molti altri piccioli per fare altre guerre e per investire "pesantemente" nel famoso triangolo industriale (Genova, Torino, Milano) ... che, finalmente, decollò.

Non solo: dal 1860 in poi, il Sud (che abbiamo visto aveva il sistema fiscale più leggero d'Europa) fu sovraccaricato di tasse che, di fatto, vennero tutte dirottate al Nord .... (le spese statali a Napoli erano 200 volte inferiori che a Milano, ma le tasse erano maggiori).

Il Sud, dunque, fu "spogliato" delle sue ricchezze subito, e caricato di tasse per gli anni a venire. Praticamente: fu prima "annientato" nel suo capitale umano, quindi "derubato" di tutte le sue ricchezze accumulate, e poi "sfruttato e spremuto" come uno schiavo.

Com'era la storia di ... Roma ladrona??

La verità storica e che le vere "ladrone" furono Torino (sede dei delinquenti che "idearono" quella rapina) e Milano (dove i soldi, in massima parte, furono investiti).

Ed è, francamente, ridicolo che i ladroni storici conclamati ... si lamentino (oggi) esattamente della stessa cosa che loro hanno già fatto (allora) ed a cui devono la propria fortuna.

Picciotti .... un po di pudore per piacere ....!!

A chi fosse interessato ad approfondire l'argomento, suggerisco: "Terroni" di Pino Aprile ... è l'ultimo uscito ed è meticolosamente documentato e ben scritto. Se conoscete qualche leghista (di quelli pateticamente ignoranti), suggeritegli di leggerlo: gli risparmierete di continuare a fare le figure del cazzo che sistematicamente fa quando, restando serio, spara quelle sue solite, colossali minchiate.

g.migliorino

1.4.10

Il fenomeno Grillo, ma per chi?

I blog al posto delle sezioni Grillo-boys, rifugio dei delusi
Alle prime proiezioni "spaventose, incredibili", il bolognese Giovanni Favia, il grillino più votato d'Italia, è corso a comprarsi una cravatta nera: "ora devo essere elegante". Il grande momento è giunto. Il partito cinque-stelle passa dal folclore alla storia, dove c'erano sfottò ora c'è timoroso rispetto, anche paura. Sette per cento in Emilia Romagna, 4 in Piemonte, 400 mila voti in cinque regioni, quattro consiglieri eletti. Increduli loro per primi. "Per non montarci la testa andremo avanti a testa bassa". Dal V-day agli emicicli in soli tre anni: l'incubo dell'"antipolitica" si materializza, i ruba-consensi terrorizzano la sinistra. La Bresso recrimina: "erano voti nostri", Bersani apocalittico: "sono la cupio dissolvi della sinistra". E Beppe Grillo se li mangia con un marameo: "Bersani delira, rimuovetelo da segretario" commenta al telefono, tono più trionfale che aggressivo, "questi partiti sono anime morte, vagano in attesa di scomparire. I danni se li fanno da soli, e non hanno capito ancora niente di noi. "Grillo chi è?" diceva Veltroni, che per il Pd è stato come il meteorite per i dinosauri. Ora loro sono in estinzione e noi siamo il futuro".

Alt, fermi, non facciamo l'errore. Il profilo del comico genovese è potente, ma il nuovo sta nascosto nella sua ombra. Il "MoVimento 5 stelle" (la V maiuscola e rossa è quella del vaffa) non vuole essere il partito di un solo uomo: "Grillo è solo il detonatore, la dinamite siamo noi", rivendica Favia. E neppure il megafono dell'esasperazione, "se c'è qualcuno che fa marketing dell'urlo non siamo noi" (questa è per Di Pietro); e se gli parli di "voto di protesta" Favia si spazientisce, "protesta è il 10% di astensionismo, noi abbiamo portato voti alla democrazia". No, dal cappello delle urne è uscito un coniglio più carnoso del previsto. Una novità antropologica nella politica italiana che può travolgere chi la sottovaluta. I "grillini" esistono, guardate le loro foto sui loro siti Internet, leggete le loro date di nascita, tante post-1970, sbirciate le loro biografie, i loro mestieri urbani e terziario-avanzati, con un'eccedenza di quelli tecno-informatici. Da dove vengono? Chi va sui cinquant'anni esibisce qualche medagliere militante (radicali, noglobal, post-comunisti), ma quelli sotto i trenta sono una strabiliante antologia di micro-cause: la battaglia per il latte crudo, l'associazione "Novaresi attivi", il comitato "Vittime del metrobus", gli anti-inceneritore, quelli che fanno "guerrilla gardening" o la dieta a km zero... Sono, forse, ciò che i Verdi italiani non sono mai riusciti ad essere: pensatori globali e agitatori locali.


Sono, certo, un ceto politico, siedono già in decine di consigli comunali, spesso piccoli centri. Ma sfuggono ai profili tradizionali, sono corpi bionici della politica, ibridi di vecchio e nuovo. Non si incontrano in sezione ma in un blog, però non vedono l'ora di scendere in piazza; si contano orgogliosi come nei vecchi partiti (Grillo: "sessantamila ora, duecentomila fra due anni"), ma iscriversi è facile come fare un log-in al sito, la tessera è una password e non costa nulla perché "la gratuità rende bella la politica". Credono nella Rete come mito catartico: lo scrigno della verità che smaschera ogni complotto. Sono un incrocio di boy-scout e cyber-secchioni, volontari e computer-dipendenti. Grillo si fa semiologo: "È un movimento wiki". Come Wikipedia, l'enciclopedia online che chiunque può scrivere e modificare. L''assemblearismo ora è "contenuto generato dall'utente". La delega elettorale, "mandato partecipativo", l'eletto promette di essere solo il "terminale istituzionale" che inietta in consiglio le opinioni del movimento. "Abbiamo eletto ben due virus!", esulta il piemontese Vittorio Bertola, ed è ovvio che non pensa al bacillo influenzale ma ai virus informatici, che mandano in tilt un intero sistema operativo. "È qui che siamo avanti", Grillo si anima, "con noi non governa un consigliere, governa un network; con tutto il rispetto per la serata bolognese di Santoro non siamo un anchorman in tivù, siamo una rete di persone".

Le stelle grilline, però, sono spesso stelle comete, il loro impegno brucia intensamente e per poco, il ricambio è altissimo, ma se qualcuno ci dà dentro si vede: dietro il record del 28% di Bussoleno, ad esempio, c'è la lotta anti-Tav. Ma il vero salto di qualità che fa paura a Bersani è avvenuto proprio là dove i grillini non ci sono. Nell'hinterland bolognese, a Granarolo o Castenaso dove strappano il 10%, nessuno li ha mai incontrati di persona, neanche chi li ha votati. Chiedi perché l'hanno fatto, rispondono "Perché il Pd...". Rifugio dei delusi, ultima risorsa prima dell'astensione, messaggio di protesta senza rischio: "votare Lega non ci riesco, loro invece...". La loro presenza ha bucato i media. Gli elettori li conoscono. Leggete le interminabili liste di commenti dei loro blog, ce n'è una quantità che cominciano come Paolo: "Da anni non votavo...". E anche tanti che vibrano di un'eccitazione dimenticata, come Alessio: "Per la prima volta ho votato con gioia". Ho visto anche degli elettori felici: di questi tempi, da non crederci.

di MICHELE SMARGIASSI