5.8.06
FIAT : la storia diversa
Come gli Agnelli si sono impadroniti della FIAT, ovvero: una truffa da manuale.
La FIAT viene identificata da tutti con la famiglia Agnelli. Ma non è nata per loro iniziativa, e il modo con cui se ne sono impossessati fornisce un esempio classico del funzionamento del capitalismo. La FIAT era nata l’11 luglio 1899 per iniziativa di un gruppo di imprenditori affascinati dalle prospettive dell’automobile: il conte Roberto Biscaretti di Ruffia, che già importava automobili da corsa dalla Germania, il conte Emanuele Cacherano di Bricherasio, l’avvocato Carlo Racca, Michele Lanza, un modesto produttore di cande (non per automobili, ma di cera), e l’avvocato Cesare Goria-Gatti, il redditiere Lodovico Scarfiotti, il banchiere e setaiolo Michele Ceriana-Mayneri, un agente di cambio, Luigi Damevino, e un terzo nobile, il marchese Alfonso Ferrero de Gubernatis di Ventimiglia. Giovanni Agnelli entra successivamente come piccolo azionista. Nell’assemblea dei soci, il consiglio di amministrazione era stato formato solo dai “padri fondatori” che abbiamo ricordato.
Presidente era stato eletto lo Scarfiotti, vicepresidente il Bricherasio, che tuttavia era irritato perché avrebbe desiderato essere lui il presidente. Elette le cariche minori, il conte Biscaretti si accorse che mancava un segretario, un incarico puramente formale che per consuetudine si assegnava al più giovane dei presenti o a un semplice impiegato. In fretta e furia venne votato il nome di Giovanni Agnelli, a cui nessuno dava la minima importanza, soprattutto perché non era né nobile, né appartenente alle grandi famiglie borghesi come tutti gli altri.
Nelle prime riunioni del Consiglio di amministrazione Giovanni Agnelli tace; ma poi comincia ad allargare la propria influenza, attaccando il direttore tecnico, Aristide Faccioli, un progettatore fin troppo geniale, che finirà per doversi dimettere per le continue ingerenze che limitano la sua autonomia. Giocando in seguito sulle gelosie e rivalità tra i soci fondatori, egli si fa proporre come “membro delegato del consiglio” e poi amministratore delegato, con ampi poteri. Ma ancora senza un pacchetto azionario consistente.
Solo nel 1906 riesce a fare il gran colpo. La FIAT ha ormai 1.500 operai, produce nove modelli diversi. Per raggiungere le 600 vetture annue, si comincia a lavorare anche di notte. Gli utili, dopo i primi due anni (che risultavano in perdita), passano da 152.000 lire del 1902 a 394.000 nel 1904 e a 2,5 milioni nell’anno successivo. In quell’anno il Re Vittorio Emanuele, che fin da quando era principe ereditario si era espresso aspramente contro quelle macchine “pericolose ed abominevoli”, venne salvato dal principe Colonna da un fastidioso guasto di un treno, alle porte di Roma, con una FIAT: aveva così provato, per la prima volta, un’autovettura, e ne era rimasto così soddisfatto da concedere allo stabilimento il titolo di “Fornitore della Real Casa”.
Intanto, con la connivenza dell’unico suo complice nel Consiglio di amministrazione, Luigi Damevino, Agnelli fa passare la proposta di ridurre ad un ottavo il valore nominale delle azioni, con il risultato di invogliare un gran numero di acquirenti; il valore reale, anziché ridursi, raddoppio: e una parte notevole finì nelle mani dei due compari.
Successivamente, con un gioco complesso in cui entrano due istituti bancari – tra cui la Banca Commerciale – vengono dapprima annunciati dividendi favolosi, poi pagati indebitandosi con le banche (quindi senza alcun fondamento reale), mentre un cambiamento di ragione sociale e l’emissione di nuove azioni porta ad un effettivo “esproprio” di cinque dei vecchi fondatori, i quali rimangono con sole 2.000 azioni ciascuno. Agnelli, Damevino e Scarfiotti (che si è unito ai due compari), sono invece entrati in proprietà di 37.000 azioni. Tra le attività della società sono comparse (e non spariranno mai) forniture militari di vario genere, tra cui 8 sottomarini commissionati dal governo italiano (ma commissionati anche dal governo tedesco, e persino quando ormai la prima guerra mondiale era già iniziata e vedeva Italia e Germania schierate su opposti fronti, dando prova del famoso “patriottismo” degli industriali, i quali le parole “Patria” e “Stato” le ricordano solo quando devono battere a cassa per mungere denaro della collettività! n.d.r.). Il 7 luglio 1907, il primo crollo della borsa in Italia trascina nella polvere per qualche tempo i titoli FIAT; ma il terremoto serve ad un’uteriore concentrazione nelle mani dei tre avventurieri.
Il giornale giolittiano La Stampa, che diventerà solo successivamente di proprietà degli Agnelli (anche se si farebbe meglio a chiamarli “Lupi” o meglio ancora “avvoltoi”! n.d.r.), comincia a denunciare la truffa ai danni della vecchia maggioranza del Consiglio di Amministrazione; il 23 giugno 1908, la Questura denuncia Giovanni Agnelli per “illecita coalizione, aggiotaggio in borsa e alterazione di bilanci sociali” (un Berlusconi ante litteram! n.d.r.). Sono coinvolti anche il solito Damevino e il presidente Scarfiotti.
I capi d’accusa risultano particolarmente gravi e circostanziati: la procura assicurava “non esservi ragionevole dubbio” che la crisi finanziaria della FIAT dovesse “attribuirsi ai loschi intrighi dei suoi amministratori”. I tre si sarebebro arricchiti ed avrebbero assunto il controllo della società, in danno degli altri azionisti, attraverso queste manovre:
1) spargendo “false notizie di colossali commesse ricevute dall’America, poi rivelatesi inesistenti”;
2) rassicurando gli azionisti sulle condizioni della società, pagando dividendi esagerati grazie ad un mutuo passivo di parecchi milioni;
3) accreditando con “bilanci fittizi” una propsperità della FIAT che, in quel momento, non esisteva.
Lo scandalo fu enorme, ma non vi fu arresto per nessuno. Si dimise, intanto, l’intero vertice, mentre proprio Agnelli veniva incaricato temporaneamente dell’ordinaria amministrazione per la continuità dell’azienda. In suo favore interveniva il ministro di Grazia e Giustizia, Vittorio Emanuele Orlando, il quale esercitava una spudorata pressione sulla procura, ricordando che l’indagine processuale avrebbe potuto “influire in modo sinistro sulla sorte di industrie locali, che sono pure notevoli elementi dell’industria nazionale”. Un imponente collegio difensivo faceva protrarre l’inchiesta per anni, finchè l’opinione pubblica, distratta dalla imminenza della guerra ed esaltata dalla vittoria in Libia (attribuita da tutta la stampa agli autocarri 15 bis forniti dalla FIAT), non si accorgeva neppure dell’assoluzione con formula piena di Giovanni Agnelli e dei suoi compari. L’unico a pagare era stato il presidente Scarfiotti.
Alla fine della guerra, nel corso della quale la FIAT ha prodotto automezzi ed armi, navi da trasporto e da guerra, ha inviato i suoi emissaria Mosca e a Vienna (uno di essi, Adolf Egger, era per ragioni inesplicabili presente nel corteo dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria a Sarajevo, al momento dell’attentato) e ha costituito varie società - con sedi in diversi paesi – per l’importazione di carbone, ecc., Agnelli riesce ad eliminare i concorrenti e a diventare, da solo, proprietario del 55% del capitale azionario.
[Tratto da: Il «capitalismo reale», di Antonio Moscato, Teti Editore, Milano 1999]
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