15.5.08

Mercato dalle stalle, il petrolio alle Stelle



La corsa del petrolio sembra inarrestabile e le sue conseguenze sono immediatamente percepite dai consumatori tanto alla pompa di benzina quanto al supermercato. Ogni giorno dalla borsa ci comunicano che il petrolio ha toccato l’ennesimo record storico e nessuno pare sia in grado di fermare questo pericolosissimo trend. "Siamo di fronte a un caso scolastico di fallimento del mercato" afferma Davide Tabarelli presidente di Nomisma energia e analista del Sole 24 Ore per le materie prime. Se, infatti, nel tempio del liberismo, qual è il congresso USA, i senatori democratici propongono una legge per valutare se c'è stata speculazione sul mercato del petrolio, vuol dire che la tentazione di regolare i mercati è forte, troppo forte per resistere. Il mercato, come si sa, ha le sue regole ed è grazie a queste che - ci dicono i grandi economisti - trova sempre il prezzo ottimale, incrociando domanda e offerta.

Quello che, però, non si dice è che se l’offerta di petrolio è controllata da un cartello di paesi produttori, il livello del prezzo di questo sarà inevitabilmente stabilito e controllato a monte. L’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio meglio conosciuta come OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries ndr), infatti, comprende attualmente dodici paesi che si sono associati, formando un cartello economico, per negoziare con le compagnie petrolifere aspetti relativi alla produzione di petrolio, prezzi e concessioni.

Il problema è che l'aumento del petrolio è un fatto che incide non solo sul costo dell'energia, ma anche sul costo dei materiali. Aumentando il greggio, infatti, aumenta tutto: i polimeri, le vernici, la plastica che contiene gli alimenti e gli alimenti stessi, che vengono prodotti in grandi quantità proprio grazie al petrolio e ai suoi derivati, come i concimi chimici. “Io per anni ho avuto fiducia nel mercato – continua Davide Tabarelli - e credevo che si aggiustasse da solo in base alle leggi economiche. Ma visto che la domanda cresce ed è destinata a crescere ancora e l'offerta non aumenta e non aumenterà non ci sono alternative. Il prezzo spinto dalla domanda potrebbe raggiungere anche i 400 dollari.”

Prima, infatti, di puntare il dito sulle speculazioni borsistiche che inevitabilmente avvengono, occorrerebbe segnalare la stortura di un mercato che è legato alle decisioni di pochi ma i cui risultati incidono sulla vita di tutti ed in modo particolarmente feroce. L'organo federale americano che controlla ogni settimana l'andamento dei future sul greggio parla, infatti, di fluttuazioni che non superano mai il 20%. Il greggio, invece, è aumentato molto di più in pochissimo tempo. Siamo, quindi, di fronte al fallimento del mercato e non solo per un problema di speculazione.

Se da una parte c’è, infatti, la mai tramontata questione politica medio-oriententale, oggi resa ancora più calda dalle notizie provenienti dal Libano, dall’altra c’è chi parla di “responsabilità occidentale”: si sostiene che parlando tanto di biocarburanti, fonti di energia rinnovabili, riduzione di CO2 i paesi produttori abbiano maturato la convinzione che fra qualche anno potremo fare a meno del petrolio e per questo stanno spremendo quello che si può spremere per ricavare il più possibile da ciò che hanno. Una follia.

Il problema è sempre lo stesso: la domanda cresce mentre l'offerta arranca. Considerando, poi, il problema delle riserve di cui nessuno sa con certezza la stima e l’evidenza di una crescente diminuzione di accessibilità alle riserve più facili, considerando il problema della mancanza di alternative valide in quanto la quantità di energia contenuta in un litro di greggio è enorme ed ha ancora dei costi bassissimi rispetto alle alternative attualmente possibili e considerando, infine, come ipotesi quali l’idrogeno e i biocarburanti siano del tutto incapaci di reggere di fronte alla richiesta di energia del pianeta, gli scenari che si prospettano sono quantomeno oscuri.

L'anno scorso nel mondo, secondo i dati di Nomisma energia, sono stati consumati 2.200 milioni di tonnellate di carburante tra benzina e gasolio e 52 milioni di tonnellate di biocarburanti. Possiamo anche immaginare di triplicare nei prossimi 20 anni la produzione di biocarburanti, tralasciando tutti i problemi connessi all'alimentazione, ma non si potrà far crescere di molto questo rapporto perché nel frattempo la domanda mondiale di greggio aumenterà di almeno 550 milioni di tonnellate. Il che rende il problema in tutta la sua gravità.

Immaginare il petrolio sfondare quota 200 dollari al barile non è solo realismo, ma qualcosa di inevitabile e a preoccupare non sono tanto gli aumenti della bolletta energetica per gli Stati e le famiglie, ma gli stravolgimenti che seguirebbero a livello politico sulla scena globale. Il presidente dell'Opec, Chakib Khelil, la scorsa settimana ha previsto il raggiungimento dei 200 dollari al barile entro il 2010. Scenario questo confermato anche dalla potentissima Goldman Sachs, venendo quasi da dire che, se lo dice la banca centro della finanza ebraica, c’è da crederci e da preoccuparsi.

I primi a giovare di questo scenario sarebbero, ovviamente, i paesi produttori come Iran, Venezuela e Russia che hanno visto, in questi anni, salire i loro ricavi di quasi il 100%. Nel 2008 il petrolio frutterà ai Paesi Opec oltre mille miliardi di dollari di ricavi in più rispetto l’anno precedente. Ne seguirà, come logica conseguenza, un aumento esponenziale del potere politico ed economico di questi Stati, sempre più capaci, così, di influenzare le politiche internazionali degli Stati dipendenti dalle importazioni di greggio, tra cui l’Italia.

L'aumento del greggio se favorirà da un lato i nuovi Paesi produttori (ma anche i vecchi considerando il boom economico senza precedenti che sta conoscendo Dubai) dall'altro farà crescere anche i costi della logistica delle merci cinesi. Spedire un container da 40 piedi dalla Cina agli Stati Uniti con il greggio a 200 $ rischia di costare 10mila dollari in più rispetto a ora. Rischia quindi di rendere più appetibili per Pechino le esportazioni in Paesi vicini, Giappone in primis. Una cosa non da poco se si considera che gli States sono il primo mercato di export per le merci a basso costo cinesi. E se si considera - soprattutto - che l'economia americana, in bilico tra deficit pubblico alle stelle e crisi sui mercati azionari, è tenuta in piedi dagli investimenti di Pechino che è il primo detentore di Bond di Stato targati Usa. Una situazione che potrebbe cambiare. Con la sete di petrolio che ha Pechino, infatti, quanto sarebbe disposto a spendere il Venezuela di Chavez per il 20% del debito pubblico americano?
di Ilvio Pannullo

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